«Così Andreotti trattava coi capi mafia» di Francesco La Licata

Nel racconto dei pentiti una minuziosa descrizione degli incontri tra il senatore e i boss Nel racconto dei pentiti una minuziosa descrizione degli incontri tra il senatore e i boss «Così Andreotti trattava coi cupi mafia» Alla Giunta del Senato le accuse di Mannoia e Buscetta I POLITICI DI COSA NOSTRA GROMA IUL10 Andreotti su una berlina coi vetri nero fumé che attraversa le borgate di Palermo, fino a giungere in una villa dov'è atteso dallo stato maggiore di Cosa Nostra. Uomini d'onore del calibro di Gaetano Badalamenti che volano a Roma per «contattare lo zio». Lo zio? L'espressione di stupore dei giudici che li ascoltano, obbligano i pentiti a chiarire che, sì, «lo zio» è proprio l'ex presidente del Consiglio. Così lo chiamavano familiarmente gli «amici» di Cosa Nostra. E sempre lui, «Belzebù», che impatta nientemeno che con Stefano Bontade, ricevendone rimproveri e minacce. Insomma, un Andreotti tutto «mafia e partito», tanto addentro alle vicende di Cosa Nostra da poter persino chiedere ai «padrini» favori al di fuori della consuetudine, come quello, di intervenire per eliminare il giornalista Mino Pecorelli, diventato un pericolo per essere entrato in possesso di carte attinenti al sequestro di Aldo Moro. Un Andreotti che assume ruoli oscuri in alcune vicende estremamente inquietanti: l'omicidio del generale Dalla Chiesa, la morte del presidente della de ucciso dalle Brigate rosse. Anzi, proprio i segreti nascosti nelle pieghe dell'assassinio dello statista diventano altrettanti moventi per gli omicidi di Pecorelli e Dalla Chiesa, entrati in possesso della bruciante «verità» che la democrazia cristiana non aveva voluto salvare Aldo Moro. Le carte che i magistrati di Palermo hanno portato dagli Stati Uniti, dove hanno incontrato Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia - implacabili accusatori di Andreotti -, non aggiungono molto alla sostanza di quanto era venuto fuori dalle indiscrezioni pubblicate nei giorni scorsi. Ciò che è impressionante è la minuziosa descrizione degli avvenimenti, i particolari, le motivazioni che i due grandi pentiti danno all'innaturale abbraccio tra mafia e politica. A leggere i verbali, si ha la sensazione di ascoltare un racconto, una incredibile, terrificante favola. E invece non di questo si tratta, non fosse altro che per le devastanti conseguenze che la «favola» sta avendo nella realtà. COSA NOSTRA E1A POLITICA. Il primo interrogatorio è quello di Francesco Marino Mannoia. Il «collaborante» premette: «So bene che a causa di quanto dirò si cercherà in tutti i modi di porre in dubbio la mia attendibilità e potrò correre dei rischi gravi per la mia incolumità personale e non certo soltanto per causa di Cosa Nostra». Quindi ripete che Salvo Lima era «uomo d'onore della antica famiglia di Matteo Citarda di viale Lazio». Ma la sua «qualità di uomo d'onore fu sempre tenuta riservata, cioè accessibile a pochissimi esponenti dell'organizzazione». Comincia, quindi, un lungo excursus che spiega quale fosse il «panorama» politico, sin dall'inizio, quando governava don Paolino Bontade, padre di Stefano. Il vecchio boss appoggiava i monarchici ed era uno dei tre (gli altri erano Vincenzo Rimi e Antonino Salamone) «autorizzati» a tenere i contatti coi politici. Col passar degli anni Cosa Nostra concentrò tutta l'attenzione nella de e così nacque l'amicizia con Bernardo Mattarella, che fu pure ministro. L'EREDE DEL CLAN. L'eredità di don Paolino andò al figlio Stefano, che allacciò rapporti con Rosario Nicoletti («che disponeva di una villa adiacente al fondo Magliocco» ricorda Mannoia) e con l'on. Salvo Lima. «Successivamente aggiunge il pentito - sfruttando il canale rappresentato dai cugini Antonino e Ignazio Salvo (gli esattori di Salemi, ndr), uomini d'onore della famiglia di Salemi, essi pure riservati, il Bontade instaurò rapporti intimi anche con Piersanti Mattarella». Ma non si esauriva lì il quadro delle amicizie pericolose: «Nelle mani di Cosa Nostra vi era, del resto, quasi tutto l'ambiente politico di Palermo...». «Posso ricordare ancora il nome del senatore Cerami e di Filippo Capitummino...». Mannoia ha ricordi vividi e significativi. Una volta accompagnò il suo boss, Stefano Bontade, ad un appuntamento con l'on. Rosario Nicoletti «sotto un edificio sito in una via vicina a piazza Politeama e parallela alla via Libertà». La descrizione fa pensare alla sede della de di via Isidoro La Lumia. «Il Bontade ebbe un'animata discussione con il Nicoletti e visibilmente lo maltrattò». «Io continua il suo racconto - ero rimasto in auto e Bontade non appena tornato dal colloquio esclamò: "Questo crasto (cornuto) se non mette la testa a posto lo dobbiamo ammazzare". Io chiesi il motivo ed il Bontade mi rispose che Nicoletti si stava riversando di più su Riina e Calò, trascurando così Bontade». ' Tutto cambia nel «periodo immediatamente precedente agli omicidi di Michele Reina e di Piersanti Mattarella». Il quale, mentre era presidente della Regione, viene ucciso «per aver intrattenuto rapporti amichevoli coi cugini Salvo e con Bontade, ai quali non lesinava i favori». Secondo Mannoia «egli entrando in contrasto ad esempio con l'on. Nicoletti, voleva rompere con la mafia, dare uno schiaffo a tutte le amicizie mafiose e intendeva intraprendere un'azione di rinnovamento del partito della democrazia cristiana in Sicilia. Rosario Nicoletti riferì a Bontade. Attraverso l'on. Lima, del nuovo atteggiamento di Mattarella fu informato anche l'on. Giulio Andreotti». IL SEN. SCENDE A PALERMO. (Andreotti scese a Palermo e si incontrò con Bontade, i cugini Salvo, l'on. Lima, l'on. Nicoletti, Gaetano Fiore ed altri». Secondo Mannoia l'incontro avvenne «in una riserva di caccia sita in una località della Sicilia che non ricordo. Ho appreso di questo incontro dallo stesso Bontade, il quale me ne parlò poco tempo dopo che si era svolto, in un periodo tra la primavera e l'estate del 1979 e comunque in epoca sicuramente posteriore all'omicidio di Michele Reina». «Egli mi disse - continua - che tutti quanti si erano lamentati con Andreotti del comportamento di Mattarella, e aggiunse poi: "Staremo a vedere". Alcuni mesi dopo fu deciso l'omicidio di Mattarejla». Chi lo uccise? Mannoia dice: «Ho saputo che parteciparono Salvatore Federico, Francesco Davi (uomo d'onore di una famiglia che non ricordo e di mestiere pasticciere), Antonino Rotolo, Santino Inzerillo ed altri...». Il «collaborante», trova pure una spiegazione al successivo suicidio di Nicoletti: «In un'altra occasione, poi, il giudice Falcone mi chiese cosa pensassi del suicidio di Nicoletti. Risposi che ci si poteva uccidere per questioni personali o perché si provava rimorso. Ora preciso che Bontade mi aveva riferito che il Nicoletti aveva comunciato la decisione di Mattarella di mettersi contro Cosa Nostra, donde la decisione di ucciderlo che aveva causato il rimorso di Nicoletti». ANDREOTTI E IL SUMMIT. Secondo Mannoia, dopo l'omicidio Mattarella, si svolse un altro incontro tra il senatore e i capi mafia. Avvenne a Palermo, in una villetta nella zona di via Pitrè. Il pentito dà le indicazioni per individuarla: «Era una villetta modesta, di piccole dimensioni.... c'era una specie di grande pozzo che non era un vero pozzo, ma una recinzione di sicurezza, un muretto oltre il quale si poteva vedere l'inizio di un cunicolo che forse era uno dei condotti dei Beati Paoli». Ad attendere c'erano tanti boss: Salvatore Inzerillo, Michelangelo La Barbera, Girolamo Teresi e Giuseppe Albanese. «Un'ora dopo circa l'arrivo mio e di Stefano Bontade - aggiunge Mannoia - sopraggiunse un'Alfa blindata di colore scuro e coi vetri pure scuri. A bordo vi erano ambedue i cugini Salvo e l'on. Giulio Andreotti... Secondo quanto appresi, l'on Andreotti proveniva da Trapani, nel cui aeroporto era giunto a bordo di un aereo privato affittato dai Salvo o comunque per conto dei Salvo». Mannoia non fu testimone del colloquio, ma dice: «Sentii chiaramente delle grida provenire dall'interno. Quando l'incontro ebbe fine, Andreotti andò via coi cugini Salvo a bordo della citata autovettura blindata...». Sarà Bontade a raccontare a Mannoia che «Andreotti era venuto per avere chiarimenti sull'omicidio Mattarella». E gli racconterà pure ciò che gli era stato risposto: «In Sicilia comandiamo noi e se non volete cancellare completamente la de dovete fare come diciamo noi. Altrimenti vi leviamo non solo i voti della Sicilia, ma anche quelli di Reggio Calabria e di tutta l'Italia meridionale». «Il Bontade - conclude Mannoia - aggiunse che aveva diffidato l'on. Andreotti dall'idea di adottare interventi o leggi speciali, poiché altrimenti si sarebbero verificati altri fatti gravissimi». LA GUERRA DI MAFIA. Mannoia dice che morto Bontade, Totò Riina e il nuovo vertice di Cosa Nostra cercarono «anche la fiducia di Andreotti Ho sentito dire che non si sono trovati bene con lui, nel senso che Andreotti non è risultato disponibile come un tempo». Tanto che alle elezioni del 1987 la mafia gli manda un «avvertimento» facendo votare il psi «ed in particolare Martelli e un candidato di Partinico che mi pare si chiamasse Filippo Fiorino». L'iniziativa si rivelò inefficace «perché i socialisti non divennero collusi». Mannoia si lascia andare, quindi, ad un commento: «Diranno che sono pazzo, cercheranno di smentirmi... Andreotti è furbo e scaltro e ha amicizie oltre ogni immaginazione. Io mi fermo qui. Dopo il 1987 Andreotti non ha più favorito nessuno». IL GIUDICE CARNEVALE. Il pentito: «Il presidente è stato sempre avvicinabile... Carnevale era vecchio amico di Francesco Madonià, detto "Ciccino", vecchio rappresentante di Vallelunga, padre di Giuseppe detto "Piddu". A me non risulta che Carnevale fosse contattato tramite Andreotti». Ma poi al senatore manda una'altra stoccata. Dice che «impazziva per un quadro» e che glielo procurarono Bontade e Calò interessando un antiquario romano. MORO, PECORELLI, DALLA CHIESA. Tommaso Buscetta scioglie le sue riserve, mantenute fino all'audizione di novembre all'Antimafia: «Il referente politico nazionale di Cosa Nostra era l'on. Giulio An¬ dreotti. Quindi rivela che Andreotti si incontrò col boss Gaetano Badalamenti che si interessava in favore di un processo che riguardava Filippo Rimi. Andò a trovarlo a Roma insieme con uno dei Salvo». Ma subito arriva alle grandi trame: «Pecorelli e Dalla Chiesa sono cose che si intrecciano tra loro... Quello di Pecorelli era stato un delitto politico voluto dai cugini Salvo, in quanto a loro richiesto dall'on. Andreotti... Secondo quanto mi disse Badalamenti, sembra che Pecorelli stesse appurando cose politiche collegate al sequestro Moro... Badalamenti mi disse anche che, verso la fine del terrorismo, il generale Dalla Chiesa era stato promosso per toglierlo dai piedi... Quello che i Salvo chiedevano (intendo riferirmi all'omicidio Pecorelli) lo chiedevano perché interessava lo "zio". I cugini Salvo chiamavano Giulio Andreotti lo "zio"...». Su Mattarella, Buscetta dice: «Era molto vicino a Cosa Nostra (pur senza essere uomo d'onore) perché "discendeva" dal padre. In un primo momento tenne una condotta di condiscendenza, anche se non proprio di corruzione... poi, dopo l'omicidio di Michele Reina, divenne rigoroso...». E Moro? «Calò aveva un partito suo che non voleva Moro libero». A lui, a Buscetta, però fu chiesto di intervenire per cercare di salvarlo. Ricevette due sollecitazioni, una da tal Ugo Bossi, un malavitoso in contatto con alcuni politici, che alla fine conclude che «nessuno vuole Moro libero», un'altra da Stefano Bontade. Iniziativa personale del boss? Buscetta precisa: «Certo è che a chiedere a Bontade di interessarsi al caso Moro non potevano essere altri che i Salvo e quindi Giulio Andreotti». L'interrogatorio si chiude con una «panoramica» dei politici che Buscetta ha conosciuto personalmente e che sono stati eletti con l'appoggio di Cosa Nostra. L'elenco è lungo: Michele Reina, Rosario Nicoletti, Ernesto Di Fresco, Giuseppe Cerami, Margherita Bontà, Franco Restivo, Attilio Ruffini e Giovanni Gioia. Per concludere con l'imbarazzante confessione che anche don Masino aveva il «suo» candidato: Franco Barbaccia, medico dell'Ucciardone, ex deputato de. Un «vero amico»': lo hanno arrestato qualche giorno fa accusandolo di aver operato un mafioso alle corde vocali per rendergli irriconoscibile la voce. Francesco La Licata «Gli uomini d'onore lo chiamavano zio e gli donarono un quadro che amava»