L'antifascista di regime di Giorgio Calcagno

Grande scrittore, pessimo politico: i diari dal lager Grande scrittore, pessimo politico: i diari dal lager ANSALDO L'antifascista di regime CGENOVA IOVANNI Ansaldo, l'uomo di tutte le stagioni: e sempre dalla parte sba gliata. Grande giornalista, pessimo politico, è il solo personaggio della nostra recente storia che sia riuscito a farsi condannare da tre regimi diversi: dal fascismo, dal nazismo, dalla democrazia. Demonizzato per decenni, imbarazzante perfino a citarsi, Ansaldo torna alla luce oggi, ventiquattro anni dopo la morte, mentre si moltiplicano le pubblicazioni. E scopriamo uno scrittore terso, lucidissimo, un analista straordinario del nostro costume; un uomo che aveva frequentato tutti i migliori personaggi della nostra cultura. «Quando tentai di rilanciarlo, qui, a Genova, sulla rivista della Regione, fu un terremoto - dice Giuseppe Marcenaro, studioso di arte e letteratura ligure -. Avevo dedicato un numero a Montale e uno a Sbarbaro, ma, quando ne progettai uno su Ansaldo, molti politici si ribellarono. Riuscii a fare il numero solo a condizione che il nome di Ansaldo non apparisse nel titolo». Eravamo nel 1982. Il vento è cambiato da poco, per lo scrittore. Tre libri negli ultimi due anni, e almeno quattro altri in arrivo. L'anima dell'operazione è il figlio del giornalista, Giovanni Battista Ansaldo, ex dirigente dell'Italsider e dell'Uva. Ci parla del padre da una finestra affacciante sul porto. Oltre la Lanterna, ci sono i cantieri che portano ancora oggi il nome della famiglia, fondati dal nonno di Giovanni Ansaldo a metà dell'Ottocento. Sotto i nostri occhi c'è il segno del suo mondo. Nasce di lì lo scrittore che fu amico di Gobetti e di Carlo Rosselli, simpatizzante socialista negli anni difficili del primo dopoguerra, fascista poi, destinato a tutte le sconfitte. Come si spiegano le evoluzioni del personaggio? «E' difficile per me giudicare mio padre - ci dice Giovanni Battista Ansaldo -. Aveva un concetto della vita ordinata, seria, conservatrice; non voleva la rivoluzione. Era il classico esempio di borghese genovese, e insisto sul genovese, che teme il moto di piazza. Il suo concetto di storia era sempre per un progresso ordinato, guidato e controllato». Gli toccò vivere in tempi in cui la storia non accettava né ordine né guida né controllo. E i moti di piazza gli arrivarono addosso quasi subito. Giovanni Ansaldo si era formato in una famiglia fatta tutta di donne, legata alle tradizioni; la voce del mondo gli era portata dal padre, capitano di mare. Giovanissimo, aveva cominciato a scrivere sull'Unità di Salvemini, che lo segnalò a Giuseppe Canepa, il fondatore del Lavoro. E in poco tempo il venticinquenne Ansaldo (era nato nel 1895) diventò il leader del giornale socialista genovese. A lui non piacevano quei giovanotti rissosi, scamiciati, che giravano col manganello, e li pungeva tutti i giorni con i suoi corsivi. «A Genova, città piccola, questo giornalista venne visto come simbolo di antifascismo. Ma io sarei attento a giudicarlo un antifascista di fondo - ci ricorda il figlio -. Lui era il punto di riferimento dei benpensanti». Di fatto sul Lavoro di Ansaldo trovarono ospitalità tutti gli intellettuali che non accettavano il regime, da Gobetti all'esordiente Soldati. L'antifascista benpensante finì suo malgrado per scontrarsi con il potere, venne inviato al confino di Lipari, con Bauer e Carlo Rosselli. E proprio lì, nel contatto quotidiano con i protagonisti dell'antifascismo vero, scoprì di non condividere la loro linea: «Si accorse che gli ideali di Rosselli erano contrari al suo spirito di conservazione», ci dice il figlio. Quando tornò a Genova, nel 1927, Ansaldo era già disponibile alle seduzioni del regime. «L'onorevole Mussolini ha letto il suo articolo e le manda il suo apprezzamento», c'è scritto in una lettera, che il figlio conserva, verso la fine degli Anni Venti. La scrittura di Ansaldo si fa meno pungente, la sua attenzione a un governo che parla di patria, di ordine, di ruolo dell'Italia nel Mediterraneo, più interessata. Nel '36, con la guerra d'Africa, arrivò la tessera del partito, nel '37 l'invito di Galeazzo Ciano. Il giovane ministro degli Esteri, genero del Duce, lo chiamò a Livorno, per dirigere II telegrafo: un giornale guardato da tutta Italia, perché si sa chi lo ispira; Ansaldo divenne potentissimo, nella carta stampata; arrivò alla radio dove si alternava con Appelius nei commenti ai fatti del giorno. Accanto a Ciano, di cui diven¬ ne l'interlocutore privilegiato, Ansaldo andò a Salisburgo, per la firma del Patto d'acciaio, salì al rifugio di Hitler. Confidente del ministro, divise con lui la diffidenza per l'alleato tedesco; Ciano fu così leale da informarlo su quello che stava per accadere il 25 luglio. Troppo tardi. Caduto il fascismo, il direttore del Telegrafo non potè fare altro che presentarsi al distretto e chiedere di andare in guerra. L'8 settembre lo sorprese a Ragusa,' in Dalmazia: vittima dei tedeschi che lo catturarono. Si sarebbe potuto salvare aderendo alla Repubblica di Salò: ma almeno quell'errore riuscì a evitarlo. I tedeschi erano furibondi. «Come? Un uomo che ha stretto la mano al Fùhrer? Ce ne ricorderemo». Scampò per miracolo alla fucilazione. Non scampò alla terza cattura, quando giunse in Italia, a guerra finita, dopo venti mesi di peregrinazioni per i lager nazisti. A pochi chilometri da casa, venne riconosciuto da un ferroviere a Cecina, sfuggì al linciaggio solo per l'intervento dei carabinieri, che lo portarono in carcere. Così la moglie e il figlio, che lo aspettavano, riuscirono a rivederlo per la prima volta dopo due anni alle Murate di Firenze. «E poi finì a Precida - ricorda il figlio dove erano concentrati tutti i fascisti, compresi quelli che lo avevano bastonato a Genova. Lui aveva ancora in testa una cicatrice, segno di quelle botte». L'amnistia di Togliatti gli consentì di tornare a casa, non di riprendere il lavoro. La sua firma era proibita. «Venne a Pescia dove noi eravamo sfollati e cominciò il suo esilio dai giornali. Ma tutti si diedero da fare per aiutarlo, da Vergani, che fu il più caro, a Longanesi. Canepa testimoniò in suo favore». Ansaldo doveva mantenere la famiglia con la sua pernia, senza poter firmare. Sui giornali era Stella Nera, Canepa; nei libri Willy Farnese (Il vero signore), Michele Fornaciai! (Latinorum). Tutti lo sapevano, e dovevano fingere di ignorarlo. Solo alla fine degli Anni 40 cadde quel segreto di Pulcinella, quando apparve, a nome di Ansaldo, Il ministro della buona vita, la famosa biografia di Giolitti. L'ultimo a ricordarsi del giornalista che, partendo da Gobetti, era approdato a Longanesi fu De Gasperi. Senza conoscerlo, gli fece chiedere se voleva dirigere II mattino. Ansaldo credeva fosse il giornale di Firenze e, dopo qualche titubanza, accettò. Solo allora scoprì che era il quotidiano di Napoli. Aveva il genio di infilare le porte sbagliate. Così l'uomo che aveva cominciato le sue battaglie con i socialisti in salita Dinegro a Genova le concluse con i democristiani nel castello normanno di via Chiaia, dove era stato Goethe, e dove lavorò fino alla morte, nel 1969. «Chi giudica mio padre oggi, ed è nato negli Anni 40 - dice il figlio -, mi turba fino a un certo punto. Ansaldo ha attraversato due guerre, l'antifascismo, il fascismo, la democrazia cristiana. Tante altre persone hanno avuto la stessa avventura, non merita il giudizio negativo che c'è su di lui. Ma c'è l'invidia, per un uomo che è stato vicino ai potenti, senza profittarne». E' vero, sono stati anni difficili, tanti hanno pagato, come lui, o anche di più. Lui è il solo che ha pagato in tutte le direzioni. Giorgio Calcagno