Italia, gli sboccati

Parlando usiamo solo 5 mila parole e molte parolacce: intervista con De Mauro Parlando usiamo solo 5 mila parole e molte parolacce: intervista con De Mauro Italia, gli sboccati Nel turpiloquio primi al mondo ESSICO, lessico delle mie brame, chi è la più bella reame? Nel noi del turpiloquio italiani siamo primi: più fecondi di francesi, inglesi, tedeschi e americani. «E' un dato che emerge incontestabile: l'abitudine alle parole "scollaccia te" nella comunicazione orale raggiunge da noi punte molto più alte che in tante altre nazioni» afferma Tullio De Mauro, autore, con Federico Mancini, Massimo Vedovelli e Miriam Voghera, del Lessico di frequenza dell'italiano parlato (sponsorizzato dalla Ibm Italia Etas Libri). «Non posso però escludere che in Germania o negli Stati Uniti la "censura" abbia operato qualche ritocco nel lessico del linguaggio parlato; ma, in ogni caso, il nostro registro linguistico con gli anni si è abbassato ed è diventato ricco di termini "crudi" che sono usciti dalla terminologia regionale per assumere una dimensione nazionale». La parolaccia, dunque, si sprovincializza e diventa patrimonio comune. Dacci oggi il nostro turpiloquio quotidiano, pare che dicano gli italiani, popolo leader del linguaggio «volgare»: «lui», il membro virile adoperato come interiezione, arricchito dal tono esclamativo, dal punto interrogativo, dalla rabbia, dall'indignazione o dallo stupore, sale nell'Olimpo delle prime mille parole più usate. Il c... è arrivato infatti al 722° posto. Su 100 mila parole, alla radio e in tv viene pronunciato solo due volte, ma nelle conversazioni amichevoli compie una escalation. Al telefono è invadente: compare 39 volte su 100 mila parole. A Napoli raggiunge l'apice della frequenza, sopra la linea Gotica va scemando: o, almeno, così dicono i ricercatori. Non compare mai, assicura De Mauro, nelle omelie. Sia al Nord sia al Sud è proprio con la cornetta in mano che la vena più sboccacciata e incontrollata prende il sopravvento: «Al microfono la conversazione è sempre più intima - dice De Mauro -, ci sono molti più dialettalismi, frasi fatte e parole "sconvenienti". E' il vero lettino dello psicoanalista dal punto di vista dell'uso del linguaggio poiché ci si sente disinibiti». Nel Lessico costruito da De Mauro e dai suoi collaboratori sono state passate al vaglio circa 500 mila parole. Armati di registratore e sparpagliati nelle città campione della Penisola - come Milano, Roma, Firenze e Napoli - i ricercatori hanno raccolto uno sterminato esercito di lemmi e lo hanno poi sottoposto all'elaborazione elettronica. Il ritratto linguistico che ne emerge fotografa gli italiani nelle situazioni cruciali: quando dialogano faccia a faccia, al telefono, quando si cimentano nell'arte oratoria, nelle assemblee, a scuola, all'Università, nelle aule dei tribunali. E rende noto che si è verificata una grande trasformazione: gli abitanti dello stivale, sempre meno condizionati dal dialetto, usano un linguaggio comune. «Il dato sorprendente è questo: fino a pochi anni fa si credeva che la lingua scritta fosse meno ricca e vivace di quella parlata. Invece è tutto il contrario, il linguaggio parlato è più povero e ha un lessico più limitato - afferma De Mauro -. Se c'è qualcuno che al giorno d'oggi pensa di usare un vocabolario molto originale e personale, sbaglia. Le parole d'uso sono sempre le stesse, 5-6 mila, che coprono il 96 per cento dei nostri discorsi. Certo la lingua scritta è molto diversa da quella parlata dove, peraltro, sono in atto tanti cambiamenti. Ad esempio, sono stati aboliti il futuro e il congiuntivo». Tra le altre novità del lessico degli Anni 90 c'è l'arrivo di modi di dire «colti» che fanno un ingresso trionfale, in buona postazione, nel nostro parlato. Ecco quindi (munto di vista», «rendersi cónto» e, perfino, «disegno di legge». Non mancano «area metropolitana», «in diretta» e «pubblico ministero», quest'ultimo giunto a riempirci la bocca prima di Tangentopoli. Sono diminuite le differenze nella pronuncia, l'impalcatura grammaticale e il vocabolario sono più unitari. «L'italiano parlato spiega il linguista - comincia a diffondersi solo alla fine degli Anni 50. A questo ha contribuito indubbiamente la televisione. Oggi quelli che si esprimono solo in dialetto sono il 12-13 per cento, mentre quelli che parlano solo italiano sono il 30 per cento. L'uso del dialetto è evocativo, la parola dialettale quasi chic, impiegata per colorire il discorso: il dialetto non è più una necessità ma un lusso». In questa diffusione di una lingua standard, quali parole vanno per la maggiore? «Dopo gli articoli, le preposizioni, gli avverbi, nella hit parade si af¬ fermano: "potere", "dovere", "volere", e un posto di tutto rispetto ce l'ha "andare"», sostiene De Mauro. Come mai, dove «vanno» gli irrequieti italiani? «Bisogna fare attenzione alle generalizzazioni - mette in guardia lo studioso -, frenarsi nella voglia di interpretare. Le motivazioni all'origine dell'uso di un lessico non sono così facili: "andare", per esempio, trova il suo impiego assiduo in tanti modi di dire e in molte espressioni, come "ma va' ", "va bene", e così via». Ancora, tra le parole che riscuotono successo ci sono i vezzeggiativi e i diminutivi. Il partito più nominato è il «partito comunista» (definito in questo modo nelle ricerche effettuate tra il '91 e il '92), proprio adesso che non esiste più, e batte la «democrazia cristiana» 27 a 19 volte su 500 mila parole. Nella lingua attuale, uguale per tutti, frullata e appiattita, quali differenze resistono e sopravvivono tra Roma e Milano? «Ha ragione Maria Corti - afferma De Mauro - quando sostiene che il parlato di Roma è più provinciale di quello di Milano. Ancora un esempio: lo scambio di battute tra Di Pietro e tre milanesi che avevano ammazzato di botte una quarta persona. "Che rapporto avevate - chiede Di Pietro con il suo accento abruzzese con la vittima?". "Stupendo", afferma uno dei tre interrogati. Al Nord - spiega De Mauro - c'è in genere uno standard "colto", più scolastico, molto formale e più impersonale. Al Sud, ancora oggi, il linguaggio parlato è più sgrammaticato ma più "libero" e colloquiale». Mirella Serri //punto massimo della volgarità viene toccato nelle conversazioni telefoniche Nella lingua scritta aboliti (ormai) i futuri e i congiuntivi Nella lingua scritta aboliti (ormai) i futuri e i congiuntivi Il linguista Tullio De Mauro e, sopra, la filologa Maria Corti A destra Leopoldo Mastelloni, in basso Vittorio Sgarbi