IL LUMBARD NELL'OSTERIA di Carlo Carena

IL LUMBARD NELL'OSTERIA IL LUMBARD NELL'OSTERIA Lomazzo, artista del '600 OCCORRE riportarsi alla Milano del tardo Cinquecento, alla Milano sì della Controriforma incarnata da Carlo Borromeo, ma per contrasto: piuttosto e soprattutto alla Milano delle cinquantotto osterie e dei quartieri ove confluivano dalle più povere valli alpine i facchini, gli spazzacamini, i bottai, gli spaccalegna, gli osti, portandovi fatiche, tradizioni, dialetti, il carattere rude e beffardo, che quando l'ingegno e la fortuna arridevano trovavano modo di esprimersi nei lavori del sasso, dell'incisione, della pittura e della letteratura. Immigrati fra cui il Seicento annovererà nomi illustrissimi a Roma ancor più che a Milano (il Borromini, i Fontana, i Maderno...), ma che già ora si radunano nella capitale lombarda intorno a un'accademia che è anch'essa una fronda e una sfida sotto ogni profilo; una parodia dell'ufficialità e del classicismo. La documentazione artistica si trova ad esempio, e nel modo più provocatorio, nei ritratti e nelle teste grottesche di Aurelio Luini e di Giovan Paolo Lomazzo, chiaramente eredi del Leonardo ghiribizzoso. Quella letteraria, in una raccolta poetica, i Rabisch dra Academiglia dor Compà Zavargna, Nabad dra Vali d'Bregn e d tucch i sù Soghit (Arabeschi dell'Accademia del Compare Zavargna, Abate della Valle di Blenio, e di tutti i suoi soggetti); raccolta stampata a Milano nel 1589, che ora Dante Isella (in Rabisch, Einaudi, pp. LXVIIIL. 48.000) restituisce in modo impareggiabile alla nostra lettura curiosa e divertita ma soprattutto iì agli studiosi .della storia dell'arte, dei dialetti, dei gerghi, dei costumi, del sottobosco allegro e ribaldo della società del tempo, il più aspro e schietto contro la più melliflua e paludata. Non per nulla la raccolta dovette attendere per la pubblicazione appunto la morte del Borromeo, e i suoi autori s'imposero anche nell'ordinario della vita un riserbo accorto e necessario. Giovan Paolo Lomazzo vi figura come Abate, presidente (e 10 fu a vita dal ferragosto del 1568, e dunque alla morte nel febbraio del 1600) di un'accademia che albergava gli irregolari delle arti (pittori, intagliatori, ricamatori) e della vita. Sorta a Milano nel 1560, essa assumeva a insegna quella di una valle del Canton Ticino, che a Biasca diverge dalla Leventina per arrampicarsi verso 11 Lucomagno; una delle terre di origine appunto, di facchini importati in Lombardia, dei quali assume anche la parlata. I Rabisch offrono così al facchinesco la dignità letteraria al pari di altre più note parlate gaglioffe. Per la sua estrema difficoltà, senza il soccorso puntuale di Isella che spiega nell'introduzione e traduce a pie di pagina i testi, saremmo tagliati fuori quasi completamente dagli scherzi dei quindici autori dei novantun «arabeschi» e dalle prose che li accompagnano, fra cui le costituzioni e il cerimoniale accademico, anch'essi partecipi di quelle che a proposito di tutti i Rabisch Isella definisce come «le due linee portanti della tradizione letteraria milanese: quella colta, di letterati di mestiere più o meno rifinito, e quella popolare, il cui genere più largamente praticato è la frottola, ribattezzata in seguito "bosinata"». Così il capitolo sulla Origen e fondament dra Vali de Bregn si apre con una parodia della mitologia dell'aristotelismo e dei poemi classici e poi classicheggiami. Ispiratore e patrono dell'Accademia risulta essere Bacco, anzi Baccone; primi adepti, otto compari, anzi «savi, nuovi Deucalioni sopravvissuti, all'annegamento dei vizi e degli errori del mondo» (riferiamo evidentemente la traduzione italiana) con i nomi, fra l'altro, di Vinasc e Pestavign: nomi «bassi e da facchini», assunti «per dimostrare al mondo la grandezza del loro ingegno e confusione di chi pensa che essi non siano capaci d'altro che di grandi bevute e di sciocche chiassate». Il seguito si mantiene su questo tono nel dare precetti sul comportamento, gli attributi, la vestizione e i simboli accademici. E con allegra, ma a volte anche tragica ispirazione, tra allusioni e strumenti raffinati e volgari controcanti corrono anche le composizioni poetiche dei Rabisch, scambi di bigliettini e di battute, elogi degli amici e delle amiche, del mangiare o del bere o dell'amore, smargiassate, morsi al freno, in forma di strambotti, «barzellette», sonetti più o meno caudati, canzoni, ottave rime, Tra i più belli e tipici di questi componimenti, se non il più bello in assoluto, è una «Mattinada» del Zavargna per la sua Rosetta: non un'altra stanca, ma una forte parodia petrarchesca, che richiama Berni ma più Ruzzante, soprattutto nella descrizione delle doti fisiche dell'amata, della prostrazione, degli impeti e dei vanti dell'innamorato, tra il folonghesco appunto (nemmeno manca nella raccolta un «Saluto e congratulazioni delle Muse macaroniche alla nuova Musa di Blenio», appunto in distici macaronici, di Barba Tognazzo, pseudonimo dal Baldus di Francesco Gallarati, uno dei dodici Difensori dell'Accademia) e il rabelesiano, che, con qualche toscano quattrocentesco, ci sembrano i massimi e, si capisce, irraggiungibili richiami per la definizione di queste liriche: «O tettogn che hagn in scima dò scires, / 0 ventrasc or [ = ili più bel c'ha er nòst valogn [vallone]..., / O sventurada sòrt dor mè rozzogn [cavallaccio] / Che a ra viglia anarav [che alla via andrebbe] insci 'd nascos / Dra [della] pastura, te tegn tra 1 rogorogn [che tieni tra le gambe grosse come roveri], / E lì sbatend begn begn i barlafus / O 'gh squitarav [le caccerebbe] nel còrp on sciert sostegn, / Ch'o gh farav fà crigliat fura de l'us [che le farebbe trarre grida fuori del comune]... Questa la lingua, che la controarcadia milanese assume a proprio veicolo espressivo istituzionale, col criptico che fa parte dello stesso travestimento fisico degli accademici di Blenio, come nell'autoritratto del Lomazzo riprodotto sulla sovracoperta del volume e decodificato dal suo curatore. Un gergo, come lo definisce ancora, l'Isella, «milanese, ma con forte placcatura rustica e con grafie particolari che ne sono il connotato più manifesto»; ovvero sostanzialmente un «milanese, nonostante la forte sovrapposizione di tratti derivati in minima parte dal dialetto della Valle di Blenio, più largamente dal lombardo rustico». Il contrasto col toscano è fortissimo, com'è fortissima l'opposizione anche all'arte predominante, alle sue grazie e alle sue accondiscendenze al gusto e ai committenti nella pittura del Lomazzo e compagni, non per nulla esclusi dalla vasta restaurazione borromaica. Non possiamo che accennare alla ricostruzione di questa lingua ardua e all'acquisizione di nuovi dati o di correzione dei precedenti, contenuti nell'introduzione del volume e nelle schede biografiche sugli autori, spesso interessanti anche o soprattutto per lo storico dell'arte. Questi testi peregrini e astrusi, nella loro attuale presentazione o addirittura consacrazione aprono uno squarcio inedito alla letteratura e all'arte lombarda fra Cinque e Seicento; di più, contribuiscono in modo decisivo a caratterizzarle e conformarle nella linea che l'Isella come pochi altri ha contribuito a definire. Carlo Carena

Luoghi citati: Canton, Lombardia, Milano, Roma