Jim Clark il mito degli Anni 60 di Gian Paolo Ormezzano

Venticinque anni fa perdeva la vita in gara uno dei più grandi piloti di tutti i tempi Venticinque anni fa perdeva la vita in gara uno dei più grandi piloti di tutti i tempi Jim Clark, il mito degli Anni 60 Che primato con la Lotus: 25 vittorie, due Mondiali 7 APRILE '68 TRAGEDIA A HOCKENHEIM >iK-if■■'.<!.■ 6103 i»\ -•> '• VENTICINQUE anni fa, sul circuito tedesco di Hockenheim, moriva Jim Clark, due volte campione del mondo, il pilota che una supergiuria inglese ha messo dietro, nella classifica dei granai del volante, al solo Nuvolari. Dell'italiano si è celebrato l'anno scorso il centenario della nascita, dello scozzese si celebra oggi il quarto di secolo dalla morte. Un incidente strano, misterioso quel 7 aprile 1968: l'auto una Lotus Cosworth di 1600 ce al quinto giro del Trofeo di Germania di Formula 2, dopo una trentina di chilometri di corsa, cominciò a sbandare in rettilineo, andando da un lato all'altro della strada e finendo dopo 550 metri per uscire e schiantarsi, ai 200 e passa all'ora, contro un albero. Clark era settimo, si stava praticamente allenando per prove più dure. I soccorritori tirarono fuori un cadavere da quel che restava del telaio. Si parlò di sterzo rotto, la perizia disse di uno sgonfiamento, senza cause precise, di un pneumatico. Ma nessuno è riuscito a spiegare perché in oltre mezzo chilometro Clark non ha mai frenato, mai. Era un grande campione, un pilota perfetto, un uomo felice. Noi italiani lo dicevamo nuovo Nuvolari, i britannici preferivano ancorarlo a Stirhng Moss, che non era diventato mondiale (la Formula 1 iridata era nata nel 1950) per curiosi accidenti ma che sicuramente era stato il più forte dopo l'argentino Fangio, sino a che un incidente non lo aveva rotto tutto, costringendolo alla nenia, per lui, del rallysmo fra gentlemen. Clark vinceva in un mondo dove i simboli erano poveri, ragionieristici, su tutti Fangio l'algido. C'era una grande voglia di Nuvolari, sembrava che l'epos fosse palpabile, spupazzarle soltanto con la morte. Enzo Ferrari aveva smesso da poco, da quando era morto suo figlio Dino, di officiare le corse con la sua presenza, snobbava la gara come qualcosa di cui lui sapeva già tutto prima. Venne Clark e sembrò saziare tutti con il suo personaggio, buono per cattedrali del tifo'e per altarini dell'ammirazione personale, per adorazioni di massa e palpatine di amici. Era divino da quando entrava nell'auto, anzi si calava nell'auto, perché fu lui il primo a guidare «sdraiato», fasciato dall'abitacolo, dal sarcofago costruitogli addosso, divino perché guidava meglio di tutti, vinceva come nessun altro in un tempo così breve. Sette gran premi in un anno ( 1963), e alla fine della corsa sarebbero stati 25 in 6 anni, dal 1962: Fangio per vincerne 24 ci aveva messo 8 anni. Era umanissimo quando, finita la corsa, finite le prove, si semplificava di gesti, di azioni in maniera quasi desolante, più normale di ogni normale, più travet di ogni ragioniere. E spariva con un suo amico scozzese, uno di quelli che, come lui, venivano dai posti delle pecore. Lui chiamato il pastorello perché quella era l'iniziazione anche dei figli dei ricchi contadini: finito a Edimburgo il primo ciclo di studi era andato diciotto mesi per pascoli, guidando il gregge con un bastone e un cane. Era un modo obbligatorio di conoscere la fatica della vita, di conoscersi dentro grandi cori di paesaggio e vasti silenzi di uomini e cose. Jim Clark, nato il 14 marzo 1936, scozzese di Duns, nel Bewickshire, era arrivato all'automobilismo di competizione con la trafila da Gian Burrasca delle highlands, rubando la vettura a parenti non vedenti anzi non guardanti, correndo giovanissimo anche in moto, facendo sapere a tutti di avere dentro il fuoco grande dello sport, con gare di corsa e di hockey. Gli esperti capirono subito che lui era un diverso, un super. Non eseguiva numeri speciali, aveva l'auto che anche altri avevano. Semplicemente, andava più veloce di tutti. Colin Chapman che gli preparava le Lotus diceva che, posseduta da Jim, l'auto cambiava, diventava qualcosa di unico. E lui giocava a scommettere: da quella curva esco ogni giro ai 180 spaccati all'ora, controllate, vinceva sempre, una sterlina al colpo. Soltanto il nume Ferrari poteva sancire che si trattava di un altro Nuvolari: non lo gridò, ma lo fece capire. Quando venne il tempo di agganciare Clark con un contratto disse però che forse lo scozzese avrebbe usato la sua offerta per farsi pagare di più dall'automobilismo britannico. Clark guadagnava moltissimo, più di ogni altro, e investiva in terre e pecore. Non gli erano state buttate addosso storie di donne, e forse neanche questo piaceva a Ferrari, grandissimo voyeur spirituale. Negli ultimi anni di vita comunque ci fu, accanto a Clark, l'epifania di una bellissima, Sally Stokes, indossatrice. Lui aveva sempre detto di non volersi infliggere a nessuna donna, ma quella Sally sembrava in ogni istante ringraziare il cielo di poterlo aspettare all'arrivo: probabilmente era amore vero. Nella sua breve vita felice Clark invase le cronache di fatti, di vittorie, lasciando poco tempo per studiare i segnali agiografici. A nove anni aveva impa- rato a guidare, per riuscire a vedere la strada metteva sul sedile un sacco di farina. Era già un pilota vero a tredici anni, quattro anni prima dell'età britannica per la patente. Alla gara d'esordio fu ultimo: gli aveva dato l'auto il proprietario di una tenuta vicina a quella dei Clark, uno matto per le corse. Da allora fu un placido, per lui, salire di rango, mentre gli avversari impazzivano, chiedendosi perché le auto con la sua guida diventavano perfette. Forse fu troppo caro agli dèi, per questo pagò ad Hockenheim. Non aveva neppure sulla pelle segni di gravi incidenti, il primo serio fu quello che lo uccise. Era andato anche a Indianapolis, a vincere la corsa più mitica: e aveva guadagnato quell'anno come un divo del cinema, primo pilota a salire a certi cieli. «Primo» era l'aggettivo che gli veniva appiccicato più spesso, negli ordini d'arrivo, nelle statistiche sulla bravura. Primo anche nel mangiarsi le unghie, i polpastrelli sanguinavano. Primo nell'accorrere dove ci fosse una corsa anche stupida, con un'auto matta, per divertirsi. Moss era il dio corrusco, Hawthorn era il bello trionfante, Graham Hill era il baronetto con quattro ruote. L'automobilismo britannico trionfava però soprattutto con lui, chiamato «scozzese volante» dal nome del treno che di notte legava Edimburgo a Londra. Volitava quando gli altri arrancavano. Sotto la pioggia la sua guida era ancora più felice. Era così superiore che vinceva senza fare arrabbiare nessuno. Dissero che al suo funerale tutti i piloti piangevano davvero, sinceramente. Una solta volta prima di Hockenheim la tragedia osò avventurarsi delle sue parti. Monza 1961, lui, che non aveva ancora vinto un gran premio, dietro a Von Trips della Ferrari, il tedesco serrò a destra, ci fu un contatto fra le ruote delle due auto, Von Trips andò contro la rete, uccise undici spettatori e poi se stesso. Nel 1964 un processo sancì che Clark non aveva colpe di quel contatto, aveva fatto semplicemente il pilota, crudele ma perfetto. Cosa ce ne faremmo adesso di un campione come lui? Dopo quanti suoi successi annichilenti gli chiederemmo di smettere di vincere, gli chiederemmo di morire? Gian Paolo Ormezzano Primo in tutto, in pista e nella vita Era così superiore che vinceva senza fare arrabbiare nessun avversario Il sorriso di Jim Clark (a fianco) al termine di un vittorioso Gran Premio e (sopra) impegnato con la Lotus ' a Montecarlo nel 1964

Luoghi citati: Edimburgo, Germania, Hockenheim, Indianapolis, Londra, Montecarlo, Monza, Stirhng Moss