lo, ispettore anticrimine

lo, ispettore anticrimine Parla Maurizio Donadoni protagonista del film poliziesco su Raidue lo, ispettore anticrimine «Sono un montanaro finito sul set» ROMA. Maurizio Donadoni è un attore anomalo. Perché è grande e grosso come Gerard Depardieu e come lui ha due manone da contadino e una luce d'infanzia nello sguardo. Perché parla come un fiume in piena, ribelle a ogni intervista: un pensiero lo lega all'altro con salti di tempo e di logica non dettati dal narcisismo, ma dalla volontà di raccontare insieme se stesso e l'Italia. Perché è di famiglia contadina e montanara e sono pochi, tra quelli che nella vita scelgono di fare il mestiere di recitare, nati e vissuti in una frazione di novecento abitanti, dentro una famiglia operaia di quattro fratelli, con una madre a badare alla casa e la paga del padre per tutto il resto. Eppure Maurizio Donadoni ce l'ha fatta e dalle piccole parti in teatro con Lavia e Ronconi è passato al ruolo di prim'attore in cinema e tv. In questi giorni è il protagonista di «L'ispettore anticrimine», ogni giovedì sera su Raidue per la regia di Paolo Fondato. Merito di una vocazione ostinata? Lui nega. «E' che volevo spezzare la catena del destino. Un nonno contadino con la passione per il teatro costretto a fare il contadino perché è la sua sorte. Un padre operaio che si contentava di recitare in piazza, perché da una famiglia contadina si può solo finire in fabbrica. Io mi sono ribellato alla legge dei piccoli passi. Mi volevano maestro elementare, invece ho trovato a Bergamo un gruppo di gente a cui piaceva recitare e ci sono entrato. Sono rimasto in palcoscenico solo perché dalle 250 mila lire al mese che mi davano come supplente sono passato alle 300 mila come attore». Maurizio Donadoni di Bonatedi Sopra, paese in provincia di Bergamo, approda a Roma dieci anni fa, su una segnalazione di Ottavia Piccolo, pieno di confusi stimoli mal acchiappati in provincia, ma forte di molta energia e curiosità diffusa. «Il Sessantotto niente: ero troppo piccolo. Il '77 niente: da noi non s'è visto. La "contestazione" per me è stata rappresentata da un seminarista che, invece di farsi prete, s'era messo a far politica nei gruppi extraparlamentari. E poi dal Living Theather che, chissà come, era piombato a Bergamo a far spettacolo con i suoi attori tutti nudi. A casa mia c'erano solo i libri di scuola di noi fratelli e una biografia di Papa Giovanni che è nato da quelle parti: ho trovato sempre tutto nuovo e il nuovo mi è piaciuto». Tutto bene dunque? «No, il mio limite è questo corpo tanto grande, perfetto se c'è da fare un camionista ma poco adatto ai raoli di borghese tormentato. La scalata sociale all'interno delle parti è più dura del previsto». Abituato ad accettare qualunque forma di spettacolo dai classici all'operetta, ampiamente usato in questi anni da cinema e tv, solo adesso si trova ad avere il suo momento di popolarità. L'occasione televisiva gli è arrivata per caso: «Sono stato chiamato sul set all'ultimo momento. Ho pensato a "Polyce" di Pialat con Depardieu e mi sono buttato. Ma in tv non serve recitare: basta esserci con dignità». Quella cinematografica invece è frutto di una paziente attesa: «Il film "Ferramonti: una storia vera" di Gabrielli è una produzione a basso costo ma racconta una storia bellissima. Un campo di confino per ebrei e politici piantato a Ferramonti, in Calabria, durante il fascismo. Un campo dal quale gli ebrei riuscirono a scappare per rifugiarsi in Israele e partecipare alla nascita dello Stato ebraico. A girarlo ci ha aiutato il maltempo. Una tempesta di neve piombata in Abruzzo ha dato alla scena una credibilità che per motivi di costi non avremmo potuto permetterci». [si. ro.l

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