Gli incubi segreti di Testori

Esposte ad Aosta le tele che lo scrittore recentemente scomparso non aveva mai mostrato in pubblico Esposte ad Aosta le tele che lo scrittore recentemente scomparso non aveva mai mostrato in pubblico Gli incubi segreti di Testori Dal neorealismo a Bacon e Schiele 7n| AOSTA ARA' presente l'autore», m promette insensibile il Il cartoncino d'invito, che hJ. I nessun clemente fattore (nel senso proprio francese, di postino) è riuscito a fermare: Giovanni Testori, nel frattempo, è dolorosamente scomparso. Mancava dunque alla mostra della Tour Fromage d'Aosta, che fortemente - com'era nel suo carattere acceso - volle e progettò, insieme al critico Janus, in questi tormentati, ciclici mesi di sofferenza malata e feconda. Titolo: Notte oscura, sintonicamente con i versi di Juan de la Cruz. Ma in fondo Testori è pur sempre presente, comunque: par di vederlo d'un tratto fiammeggiare, gonfio di passione e di facondia, tra i suoi quadri riottosi, con quegli occhi puntuti e di ghiaccio da predicatore inflessibile, che gli ha regalato il toccante ritratto dell'amicopittore Giancarlo Vitali e che gli conferivano quell'aspetto carnale da Jean Genet della Ghisolfa. Una sorpresa, talvolta, questi fogli o tele, anche per chi era abituato a frequentare la sua pittura: perché si tratta di opere segrete, mai mostrate in pubblico, e come spesso capita con Testori riflettono la passionalità momentanea, furiosa, di un periodo ritagliato tra altri. Magari un raptus di rapinose variazioni vegetali, che occupa un intiero agosto dell'82. Oppure tramonti paonazzi di lago, alla Mundi, il sole gonfio di sangue che schizza all'intorno, come in certe opere adolescenti, affidate allo scatenarsi incontrollabile d'una centrifuga impazzita: tifoni di colore che ci investono a tradimento con la loro «sbudellata» violenza. Al primo colpo d'occhio frammenti che,stordiscono, talvolta persino inattribuibili; tanto, quant'era temperamentale il critico Testori: con, le sue passioni e le sue sfuriate. Opere quasi rabbonite, ricercate di toni, per lui che non teneva in conto la qualità dell'eleganza, che preferiva la verità forte della vita. Persino il partecipato saggio di Giovanni Raboni, nel catalogo Fabbri, sembra sorprendersi di «questa musica remota e inebriante e fin rasserenante, quasi fiutasse nell'aria un qualche tepore». Così la Trota ha cromie raffinate, squisite, ed il sangue si fa quasi estenuata decorazione; mentre uno dei tanti Tramonti lacustri tradisce una leggerezza fiabesca, tra Chagall e Mafai, degna dell'ammirazione crepuscolare di un Diaghilev. Testori questo? Certo non l'avrebbe mai accettato da un suo artista, ed è qui che la sua irrequietezza nervosa colpisce, fa riflettere. Perché - com'è capitato con le recenti agnizioni delle opere pittoriche d'un altro critico come Leonardo Borghese - è sempre intrigante verificare qual era di un' critico l'attività privata d'artista, in rapporto alle opere altrui. Curioso: Testori era forse più indulgente con le proprie delicatezze che con quelle dei «suoi» artisti. Anche se drammaticamente «testoriani» rimangono certi ritratti alla Soutine d'animali scuoiati, teste di pesce o di conigli, disumanamente sgozzati: maialini da latte pronti ad essere sacrificati sul vassoio della voracità natalizia, o il miagolar color vinaccia di gatti crollati da chissà quali cornicioni. A differenza delle pupille tondeggianti di Odilon Redon o di Hugo acquerellista, i bulbi oculari di Testori, anche quando appartengono all'animale più mansueto e bovino che ci sia, hanno sempre un'arrendevolezza tutta umana, implorante. Tutto in fondo è animale, feb¬ brilmente mortale, in Testori, anche la carnagione peccaminosa, cattolica, dei fiori più carnosi che ci siano: orchidee dischiuse come ventri invitanti, agavi dalla tortuosità polipesca, lentigginosi ciclamini che sfruttano perfino il frottage della grafite, lasciando salire a galla la pulsante filigrana della carta Fabriano. Fiori carnivori, forse anche cannibali, con quel loro quaresimale fascino coinvolgente: catturati nel momento in cui la bellezza si disfa, si sfalda nella pelle vizza della vanitas. E Testori, l'ascoltatore dei colori brutali dei suoi prediletti pittori della realtà, è paradossalmente «maestro» soprat¬ tutto quando si limita al bianco e nero perentorio della grafite, quando tormenta come un chirurgo la cartilagine del segno: segno primo, incancellabile, del desiderio di esprimersi, irremovibile come il peccato originale, anche se usa la gomma-pane per smangiare segno e materia. E allora una certa durezza gotica, da vetrata o da xilografia, incide i legnosi contorni di certi suoi vasi da fiori ottomani, alto-tedeschi: in un'atmosfera wagneriana da Maestri Cantori, che certo lo doveva coinvolgere, se tanto si esaltava evocando la voce di quercia e di birra del soprano Birgit Nilsson. Oppure il furioso arruffarsi, il nero «far le fusa» del carboncino (proprio etimologicamente, da fusain) che sprizza rosseggiando intorno alla testa dei suoi Cristi sutherlandiani: aggettare roccioso di cartilagini e rotule, che si fanno contorta vegetazione sacra, arroccarsi spinoso di vertebre ed anatomie, risentite dalla violenza di un chiodo, che profana la carne amatissima. Gruenewald, cui aveva dedicato un saggio memorabile, Bacon, ma anche Egon Schiele, con drammatiche iniezioni di carnacina, forse anche il doping, per rimanere nell'atmosfera da boxe di periferia del suo Roserio. Un vero processo di dolorosa «sfigurazione» che quasi lo conduce verso il grido espressionistico dell'astratto: anche se la sua partenza, e lo si vede pure in questa mostra, era stata visceralmente neorealistica, vicino a Corrente, a Birolli. Come quando guttuseggia con una Crocefissione (1949) gremita di candele, ostensori, agnelli sacrificali, o quando campisce enormi fiori esplosi, che sfuggono a stento alla biaccosa valanga di matericità morlottiana. (Peccato non esistano più in San Carlo, a Milano, gli affreschi che il cardinale Schuster volle cancellare). Ma ancora, all'uscita, ci si volge verso queste nature morte che hanno smesso la loro fissità caravaggesca per urlare l'atroce condizione di deportati metafisici, di esiliati nella carne, e par di udire l'ultimo suo richiamo, tenero e ruvido insieme. Marco Vallora Tramonti paonazzi che ricordano Munch e crocifissioni con il segno di Guttuso convivono con fiori carnali e nature morte che rimandano all'espressionismo: non l'avrebbe mai accettato da uno dei suoi artisti W ■ w\ Un acquarello ài Testori: «Tramonto 1969». A fianco, il Jean Genet della Ghisolfa «Crocifissione» del 1985, opera realizzata con pastello grasso e matita su carta

Luoghi citati: Aosta, Fabriano, Milano