Si arrende la «Bonnie» di Gela

Emanuela, 20 anni, arrestata durante un tentativo di rapina tornerà ancora in carcere Emanuela, 20 anni, arrestata durante un tentativo di rapina tornerà ancora in carcere Si arrende la «Bonnie» di Gela Era stata la baby-capoclan della città RAGUSA DAL NOSTRO INVIATO Ci sono tanti modi per scappare, e Bonnie lo sa bene. Quello che ha scelto lei dev'essere il più rapido e il più difficile. Sono anni che ci prova e non ci riesce. L'altra notte era una di quelle notti senza luna, ed è finita come sempre, con il carabiniere che s'è levato il berretto e le ha riso in faccia: «Minchia, ma davvero ti chiami Emanuela?». Emanuela Azzarelli è svelta e magra come un'acciuga, si fascia il seno per nasconderlo e porta i jeans stretti per correre più veloce. Ha la faccia di tutti quelli che la violenza rende lontani, quasi brutti, per un moto di paura o di estraneità. Non è brutta, Emanuela, invece. E' una nemica, come gli apache per le giubbe blu. E' convinta che il mondo sia tutto come Gela. Anche l'America sarà come Gela, dove è nata, dove le hanno ammazzato il padre e il fidanzato. Un posto da conquistare, scappando via. Ha vent'anni e un futuro senza casa, senza porto, senza le speranze che hanno tutti i ragazzi della sua età. Quando i carabinieri la fermano, come l'altra notte a Monterosso Alma, cadono sempre nello stesso errore, la trattano come fosse un maschio con la faccia di bambino. Erano le 2,15 di sabato e c'erano solo loro per le stradine del paese, e il maresciallo se la tirava per un braccio, dopo aver arrestato i due complici che volevano svuotare un bar tabaccheria: «Continua a fare il furbo. E intanto vieni con noi». E lei non smetteva di berciare: «Sto aspettando mio zio, lasciami stare!». Le storie di Bonnie finiscono sempre così, come nelle cronache più banali, come nelle maledizioni di provincia, dove il fascino dell'America è quello della periferia urbana, del sogno metropolitano di tutti gli emarginati del mondo. E' per questo che la storia di Bonnie è uria storia così italiana, così comune. L'altra notte l'hanno arrestata di nuovo. Lei ci entra e ci esce, dalle caserme e dai riformatori, da quando era minorenne. Per questo, l'hanno chia- mata Bonnie. E sui giornali, la sua vita è cominciata quattro anni fa, quando i cronisti l'avevano scelta come emblema del degrado di una città, di una regione. Comandava una banda di teppisti, picciotti anche meno giovani di lei, che la trattavano come uno di loro e magari con un po' più di rispetto. Piccola e nera, e una strana luce negli occhi. Dai giornali alla televisione. Al Costanzo show, disse che il suo sogno «era quello di sposare un boss». E tutti noi a provare un po' di paura e un po' di tenerezza per questa disperata, e pure un po' di colpa per lavarci l'anima. Anche questa volta dev'essere così. In quella notte senza luna, i carabinieri di Monterosso Alma l'hanno trovata sdraiata sul sedile posteriore di una vecchia Fiat Ritmo ferma sulla piazza del paese. Lì fuori, Antonio Maganuco e Giovanni Saluci - un venditore ambulante e un manovale di Gela - cercavano di scassinare la saracinesca della tabaccheria. Roba che se andava bene fruttava dieci milioni. «Un bottino buono per scappare qualche giorno, santocielo», come disse poi ai carabinieri. «Che cosa volete che me ne faccia di dieci milioni?». I suoi complici, quella notte, avevano tentato di scappare, ma li avevano inseguiti .e bloccati Poi, i carabinieri erano tornati indietro e avevano aperto la macchina. Lei faceva finta di dormire. E loro la trattavano come un uomo. A Bonnie deve piacere così. Così, in caserma, quando si sono accorti dell'equivoco, il maresciallo s'è fatto una risata. Poi, le ha offerto una sigaretta: «Ma tu non eri quella che voleva mettere la testa a partito?» La verità è che Bonnie ha sempre detto tante cose. Come fanno i disperati che hanno vergogna dei loro sogni e raccontano di tutto, perché questo in fondo è un modo per nasconderli. E se ci cascano e confessano una cosa, magari si pentono. Com'era successo con Attilio. Bolzoni, il primo cronista che andò a intervistarla. Anche con lui si travestì da uomo e disse di essere suo fratello. Anche con lui fece la spavalda: «A quel maresciallo dei carabinieri gli voglio fare venire i vermi». E anche con lui fra le mille cose dette finì per confessare ambizioni nascoste, quasi puerili: «Mi piacerebbe fare la cantante e cantare canzoni napoletane». In camera sua, a pianterreno, in una casa fatiscente, c'erano due gigantografie appese sulle pareti. Una era di suo padre, ammazzato per le strade di Gela forse per storie di mafia, sei anni prima. L'altra era quello di Nino D'Angelo, cantante di sceneggiate napoletane. E quello chi è? «Questo è il mio idolo», disse, con strana, pa¬ tetica ingenuità. Poi, quando lo accompagnò sulla strada, si pentì. «Dammi il taccuino», ordinò. E siccome Bolzoni faceva finta di niente, afferrò una spranga appoggiata al reticolato del pollaio e cominciò a picchiarlo con quella sulla schiena. Appena pochi minuti prima, sembrava un'altra. «Vieni, vieni», gli aveva detto. E gli,aveva presentato un tipo con il vestito gessato, il diamante al dito, la panza di fuori. «Questo è mio zio». Poi si guardò intorno. «Lo vedi tutto questo?». E fece un gesto largo con la mano, per prendere quelle case vecchie, quella confusione sciagurata, di miseria e sporcizia, di orrore senza senso, senza cielo, senza niente. «Ehi, zio, dove viviamo noi?» Qui, disse lo zio, come se fosse normale. Qui, vicino alle gabbie con le galline, in questo odore di pollaio, qui, nel cuore di una città cresciuta senza un albero, con le muraglie di cemento sovrapposte, le strade spaccate e le case senza intonaco, e i colori cupi di un disastro edilizio piantato su una piana che ha girato le spalle al mare, fino a dimenticar- lo, a cancellarlo, persino. Quella era la città dei babyest orsori, tutti ragazzini tra i 13 e i 16 anni, tutti cresciuti in fretta. Lei era una piccola capobanda, e se ne andava in giro con un gruppetto di delinquenti imberbi che spargevano terrore fra i commercianti. Non c'era scuola per loro, non c'erano campi sportivi, o ritrovi culturali. Anche adesso è così, a Gela, in questo pezzo sbagliato dell'America senza regole, con le strade polverose al posto delle free way, con la miseria al posto del dollaro padrone. Qui, a Gela, ci sono i bar e le sale giochi: piccoli bugigattoli con le luci al neon, con pareti mai immacolate, tanto tempo libero e pochi spiccioli in tasca.. E in questi posti, tre anni fa, proprio attorno a Emanuela Azzarelli, alla sua vita, nel suo ambiente, maturò la strage che la rese tristemente celebre. Otto morti, sette ragazzi e un signore di. 50 anni uccisi, in una sala di bigliardini, davanti a un posto fisso di frutta e verdura, in una macelleria. Era la sera del 27 novembre 1990. E le vittime erano tutti amici di Emanuela, ra¬ gazzi della sua banda e di clan rivali. Tra loro, c'era anche Giuseppe Aredia, di 16 anni, il fidanzato di Bonnie. Lei sparì e si ripresentò solo qualche giorno dopo dai carabinieri. Disse che era uscita dalla sala giochi appena quindici minuti prima della strage. Le trovarono addosso dieci numeri di telefono di imprenditori locali. E questi che sono?, le chiesero. «Sono miei amanti», mentì lei. Qualche anno dopo, quando si sedette sulla tribuna del Costanzo show teneva un po' timidamente la testa incassata fra le spalle. «Ho commesso qualche piccola marachella, ma per il resto si tratta di invenzioni dei giornalisti», disse. E promise che avrebbe messo la testa a posto e ripreso gli studi interrotti. Ma da allora il tempo che è passato non ha cambiato la sua vita e neppure la sua città. Lei si è presentata ad alcuni provini canori e anche cinematografici. Le hanno detto di no, naturalmente. «Non hai la faccia». Certo che no. Quella è una faccia da temere, non da amare. Così, Emanuela ha continuato a correre, per le strade della Sicilia, con gli amici di sempre. Se è vero che questo angolo del mondo ricorda l'America dei racconti e dell'immaginario popolare per la sua assoluta mancanza di regole, da qualche parte Bonnie s'è convinta di arrivare. Emanuela lo sa bene. La speranza è fatta per quelli che la riescono a vedere. Quelli come lei a Gela non l'hanno mai vista. Pierangelo Sa pegno Si fìngeva un uomo Suo padre morì in un agguato Il fidanzato nella strage in sala giochi GÌL*ÌÌT A fianco un'emblematica immagine di Gela, sopra Emanuela Azzarelli babyboss femminile