Vittoria per Renato Cordo Si aprono le porte del carcere di Vincenzo Tessandori

IL PREDICATORE DELLA I giudici gli hanno concesso la semilibertà, la sua uscita di cella potrebbe essere imminente Vittoria per Renato Cordo Si aprono le porte del carcere IL PREDICATORE DELLA RIVOLUZIONE AARRIVATO al mezzo secolo ha scoperto all'improvviso di essere stato adottato. Da molti, anche da coloro che per anni si erano dimenticati perfino il suo nome. Ed è così che è diventato un «caso» estivo. La cosa ha finito per aprirgli le porte del carcere e solo questo, forse, non lo ha contrariato. Sconti, privilegi, comprensione, facili amicizie Renato Curdo non li aveva mai pretesi. Disse un giorno, nell'estate del 1977, appena trasferito sull'isola dell'Asinara, divenuta supercarcere duro: «Non posso lamentarmi per le condizioni in cui ci costringono perché tutto questo fa parte del sistema che noi combattiamo». Ma a poco a poco anche lui aveva smesso di combattere, per lo meno in certe forme e lo aveva fatto sottovoce, senza parlare di resa. «Lui non è un pentito», è stato ripetuto per giustificare il fatto che rimaneva in cella mentre altri lasciavano la galera anzitempo. Eppure, Curdo «terrorista» nel senso letterale del termine, non è mai stato. La rivoluzione l'ha sognata, questo sì, l'ha anche predicata. «Ma con le armi proprio non ci sapeva fare», ha raccontato un compagno. Nella mitologia degli anni di piombo, Curcio è il «capo» delle Brigate rosse, il primo capo. E «capo», forse, non è mai stato, l'ideologo, piuttosto. L'avevano catturato a Pinerolo i carabinieri del nucleo speciale del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, l'8 settembre 1974. Le Brigate rosse erano nate da tre anni, all'inizio la gente le aveva accolte come un gruppo folcloristico. Poi erano seguiti i sequestri di persona e il più clamoroso era stato quello di Mario Sossi, sostituto procuratore a Genova. Ma sangue non ne era stato versato. Fino alla primavera di quell'anno quando, a Padova, due missini erano stati freddati a colpi di pistola. Solo molto tempo dopo, però, si ebbe la certezza che a sparare fossero stati i brigatisti. Curcio nasce a Monterotondo, in provincia di Roma, il 23 settembre del '41. Era figlio, si disse, del fratello del regista Luigi Zampa, ma il padre non lo ha conosciuto; dalla madre aveva ricevuto un'educazione severa. Ad Albenga, dove abitava, aveva frequentato un collegio, ottimi voti e primi interessi politici, orientati a destra, ricorda qualcuno. Poi l'università, a Trento, dove è appena sorta la nuova facoltà di Sociologia. Studente brillante, si getta a capofitto nei fermenti che scuotono l'ateneo. Quando sarà già clandestino, la rivista «Controinformazione», vicina alle Bierre, ne pubblicherà il profilo: «Di formazione cristiana ma laica, nel '65 era entrato a far parte del Gdiut, il gruppo trentino dell'intesa universitaria, associazione studentesca di prevalente componente cattolica operante negli organismi rappresentativi precedenti alla nascita del Movimento Studentesco del 1968. Abbandonata l'iniziale ispirazione "cristiana", si era spostato su posizioni marxiste. Nel '67 aveva formato un piccolo gruppo di studio denominato Università negativa, in cui veniva svolto un lavoro di formazione teorica su testi che andavano da Marcuse a Guevara». Si era sposato, nel 1969, con Margherita Cagol, una studentessa impegnata con l'organizzazione «Mani tese»: cerimonia borghese nell'abbazia di San Romedio, in vai di Non. Pochi giorni dopo il matrimonio, si erano trasferiti a Milano. Con altri, so¬ prattutto con quelli di Reggio Emilia che si facevano chiamare «gruppo dell'appartamento» aveva fondato il Comitato politico metropolitano (Cpm). Poi il passaggio a Sinistra proletaria e, alla fine del 1969, la decisione di entrare in clandestinità. La scelta è fatta. Le prime imprese delle Bierre, a Milano, con i raid all'interno dello stabilimento Sit Siemens, il sequestro del dirigente Idalgo Macchiarmi, e quello di Michele Mincuzzi, dell'Alfa Romeo. Anche gli «espropri proletari», le rapine in banca per autofinanziamento nei paesi della campagna emiliana. Infine, il passaggio a Torino e Genova per creare «colonne» brigatiste nelle città operaie. La polizia, che indaga sulla morte dell'editore Giangiacomo Feltrinelli, nel 1972, sofferma l'attenzione per la prima volta sul nome di Curcio, che fa parte di un lungo elenco di sospettati del reato di sovversione. Predica e tenta di praticare la «rivoluzione», dicono gli inquirenti. Sequestri a scopo dimostrativo, colpi per autofinanziamento. Lo arrestarono a Pinerolo, insieme con Alberto Franceschini, l'8 settembre 1974 e qualcuno pensò che le Bierre fossero finite. In galera rimase fino al pomeriggio del 18 febbraio 1975 quando un commando dette l'assalto al carcere di Casale Monferrato, dov'era rinchiuso: lo guidava la moglie, «la compagna Mara». Quattro mesi più tardi «Mara» morirà in uno scontro a fuoco con i carabinieri, nell'aia di una cascina dove le Bierre tenevano sequestrato Vittorio Vallarino Gancia. Dissero che in quella fattoria ci fosse anche Curcio, ma l'ideologo della rivoluzione si trovava a Milano. Lo scoprirono 334 giorni dopo l'evasione, in un apparta¬ mento nella zona di Porta Ticinese. E fu quella l'unica volta sicura che sparò. Attraverso la porta, una raffica ma dopo essersi accertato che davanti al battente non ci fosse qualcuno. Un proiettile di rimbalzo ferì a un calcagno un agente. Il processo di primo grado si concluse con una condanna per «tentato omicidio», in appello il verdetto venne riformato. Ma processo dopo processo la pena arrivò ai trent'anni. E lui non ha mai protestato perché, ripeteva, «non ha senso protestare contro qualcosa che combatti». All'Asinara partecipò alla rivolta e pagò con un'altra condanna. Non si è mai pentito, mai dissociato, semplicemente ha ammesso l'insuccesso. Poi i tempi sono cambiati. E qualcuno, anche se in modo tardivo, ha deciso di adottare «René», com'era chiamato il capo delle Brigate rosse. Lo Stato si è mosso, fra imbarazzi e incertezze, conti alla mano c'è chi ha capito che, contrariamente a quanto deciso dai giudici di Cagliari, in fondo Curcio aveva pagato il suo debito, almeno se si applicavano in maniera uniforme i «costi» della giustizia. Si parlò di «grazia», ma lui ribatté subito: «E' una questione da non prendere sul serio. Piuttosto, mi pare un trucco contabile. Il fatto è che sono arrivato alla fine, sempre che mi si voglia riconoscere quello che mi è dovuto in base alle leggi vigenti». Ma si era mosso il ministro guardasigilli, Claudio Martelli, e si è mosso poi il Presidente Cossiga. Sì, anche lui ha adottato Curcio. In prigione Curcio ha scritto libri, si è messo a lavorare nel sociale. Ora dice di non avere rimpianti. Vincenzo Tessandori L'ideologo delle Brigate rosse non si è mai pentito «Ora per muovermi dovrò viaggiare in autobus sono senza patente» Renato Curcio, capo storico delle Br, aspettava da due anni i benefici che il tribunale di sorveglianza gli ha concesso ieri