I'agonia di un pezzo di Roma di Renato Angiolillo

**^-.*rrFc«te ieri ri d tal< I giornalisti sono in sciopero contro il progetto della proprietà I/agonia di un pezzo di Roma Chiuso da un mese, il «Tempo» rischia di morire UN QUOTIDIANO «STORICO» NELLA TEMPESTA ROMA. Nel cuore di Roma lungo la balaustra che corre su tutta la facciata di Palazzo Wedekind, campeggia la scritta II Tempo. Riproduce a caratteri cubitali la testata d'un giornale caro ai romani. Da quanti anni quel nome, Il Tempo, è lì, a ridosso della grandiosa colonna di Marco Aurelio? Da cinquantanni circa. I romani che vanno a far lo struscio al Tritone, attraversando il portico di Palazzo Wedekind, illeggiadrito da sedici colonne svelte venute da Vejo, non s'accorgono certo del degrado che sbriciola il palazzo ma notano subito un enorme portone. Chiuso. E' il portone in mogano massiccio del Tempo. Chiuso e guardato dai vigilantes. Cosa ci fanno i vigilantes davanti a un giornale? Con facile retorica potremmo rispondere che quelle guardie (private) sono lì per soffocare la voce d'un giornale, d'un vecchio, caro quotidiano di Roma, patetico, forse, come un nobile decaduto e tuttavia rispettato. Ma non è proprio così. La proprietà vorrebbe, dicono i giornalisti, fare del Tempo «un giornale fotocopia» del Carlino di Bologna e alla Nazione di Firenze (altri due nobili decaduti). Significherebbe ucciderlo. I suoi lettori lo rifiuterebbero poiché II Tempo, a dispetto dei suoi difetti, ha conservato il pregio d'essere un giornale dedicato soprattutto ai romani, a uno «zoccolo duro» di settantamila quiriti che di padre in figlio lo leggono oramai da quarantanove anni. La borghesia romana, cattolica osservante, fatta di professionisti magari di modeste rendite ma di grande dignità sociale legge il Tempo giustappunto da sempre; i vuoti che in essa ha ritagliato il fluire degli anni sono stati via via riempitdal cosiddetto generane. Da non confondersi col generino. Il primo è composto da gente che ha fatto i soldi col commercio, conotariato e in parte con l'ediliziaII secondo sta diventando ricco, è quindi smanioso e si rivolge ad altri giornali. Chi scrive ha lavorato al Tempo durante 19 anniDal 1944 al 1963 quando il mitico Giulio de Benedetti mi volle alla Stampa. Ho dunque imparato imestiere al Tempo e questo spiega perché quel portone sbarratoogni volta che ci passo davantimi strizzi un po' la croce dello stomaco. La storia del Tempo è intimamente legata a Renato AngiolilloLucano, napolitano d'elezioneantifascista (suo fratello Amedeo fu a lungo segretario di Francesco Saverio Nitti), uomo irrequieto, spregiudicato eppure romantico, tirchio ma al tempo stesso generoso, rubacuori impenitentetra una sosta e l'altra al confino di polizia fece l'editore il regista e il produttore cinematografico (fra i suoi film spicca il Garibaldino al Convento, girato con Roberto Rossellini) e visse anche d'espedienti nella Roma-Weimadegli Anni Quaranta. E poiché isuo grande amore era il giornalismo, Angiolillo ad un certo momento decise che una volta caduto il fascismo avrebbe fatto un giornale; a Roma. Coi soldi d'un trattamento cinematografico acquistò dalla famiglia Leprotty ltestata l'Italia (già Italie, foglibilingue molto mondano). Nelllunghe partite a scopone o a poker, nella cantina di questo quel condominio romano, con Eduardo e Peppino de Filippo, con altri amici come lui clandestini, Angiolillo vinse una sommpiuttosto pesante fulminando poker d'assi il proprietario delltipografia II Vascello. Costuversò a Renato Angiolillo duemila lire in contanti (che tanto aveva) e si offrì di firmare mezzo chi lo di cambiali per il resto della vincita. Il giorno dell'allegro e liberatorio ingresso degli alleati a Roma, le strade furono percorse da improvvisati strilloni e le edicole invase dai giornali di partito. Fra i quali faceva tipidamente capolino II Tempo, quotidiano di opinione. Renato Angiolillo direttore, Leonida Repaci (sì il focoso scrittore calabrese) condirettore, Guido Piovene (detto il Conte Rosso) redattore capo, Ettore della Riccia in cronaca, Marcello Zeri allo sport, Peppino Modugno dappertutto. 11 giornale andava piuttosto bene ma le spese erano forti, il credito con la tipografia era finito, Il Tempo rischiava la chiusura. E qui Angiolillo ebbe una alzata d'ingegno vera. Il quotidiano più venduto, allora, era l'Avanti, diretto da Pietro Nenni. Il grande vecchio e Angiolillo lavoravano spalla a spalla nella stessa tipografia che li stampava entrambi. L'Avanti era inondato di pubblicità che rimaneva in massima parte fuori, in lunghi, inerti "pacchi" di piombo sicché Renato disse a Pietro: perché non mi cedi la pubblicità che ti avanza? Detto fatto. Forte di quell'indispensabile supporto, Il Tempo prese a veleggiare con grinta. Strada facendo Angiolillo perse Leonida Repaci ma guadagnò un direttore amministrativo, l'ex campione di atletica Tugnoli, ch'era un piccolo genio. L'amicizia con Nenni non fu scalfita dall'esodo di Repaci, Angiolillo faceva spesso un salto al Vascello per «abbeverarsi», come diceva, alla maestria giornalistica di Nenni (fu invero anche un grande giornalista, come, del resto, Mussolini, già suo compagno e amico e, poi, nemico). Angiolillo raccontava ch'era al Vascello quando arrivò la notizia dell'uccisione di Mussolini. Mino Caudana, passato da Pitigrilli a Nenni, redattore capo sulfureo dell'Avanti (infine passò al Tempo) irruppe in tipografia, porse un dispaccio a Nenni. Questi alzò gli occhiali sulla fronte avvicinando il foglio agli occhi e lesse che Mussolini era stato giustiziato. Posò il dispaccio, reclinò il capo sulle braccia incrociate sul ban- cone e ristette un eterno minuto in quella positura. Poi levò il capo: era pallido, visibilmente turbato. Stracciò un pezzo di quella carta bianca che allora copriva il bancone di ferro delle tipografie e con la sua grossa penna stilografica cominciò a scrivere il fondo. Che fu meno violento di quello di Angiolillo intitolato: giustizia è fatta. Da piazza di Pietra al settecentesco palazzo di via della Stelletta sempre senza tipografia, (il giornale veniva composto, insieme col Risorgimento liberale impaginato da Gorresio, e col Popolo impaginato da Giulio Andreotti nel Giornale d'Italia) ma ricco di firme illustri poiché aveva sotto contratto i "corrieristi" residenti a Roma, tagliati fuori da Milano dalla Linea Gotica: Alvaro, Baldini, Moravia, Lilli etc, Il Tempo tuttavia stentava a decollare. Sinché un bel giorno Tugnoli (che percorreva sempre la vasta redazione a passo di corsa) non gli portò un tizio stranito che offriva niente di meno che il diario di Galeazzo Ciano. In quel tempo Angiolillo pagava una lauta consulenza a Mario Missiroli che, in fatto, dirigeva il Messaggero tornato in edicola con l'aggettivo nuovo a precedere la testata. «Che ne dici Mario dell'offerta che mi fanno?», chiese, e il celeberrimo giornalista: «Per carità, Renato, non è niente, non è niente, io l'ho già rifiutato». Epperò Tugnoli insisteva sicché Angiolillo si mise a leggere il diario di Galeazzo. Gli bastò scorrerlo qua e là per capire che aveva trovato, infine, l'asso d'oro. Non posso offrirle più di duecentomila lire, disse al tizio stranito, giusto per aiutarla: l'hanno rifiutato un po' tutti. E firmò un assegno a venti giorni data: in cassa c'erano soltanto cinquantamila lire. Con la pubblicazione del Diario, preceduta da un formidabile battage (manifesti con la riproduzione delle frasi più significative vergate con calligrafia mussoliniana dal genero del Duce), annunci alla radio, spot cinematografici proiettati nelle sale di prima visione) Il Tempo fece il sospirato salto di qualità. Durante circa un anno tirò trecentomila copie al giorno che i giornalai, da Milano a Catania, acquistavano in conto assoluto, cioè senza resa. A mano a mano che Angiolillo si faceva sempre più ricco, Il Tempo, come ha ricordato in uno dei suoi splendidi elzeviri, di recente, Carlo Laurenzi, il suo giornale sempre più si spostava a destra. E tuttavia il «prodotto» era sempre eccellente. Va detto come Angiolillo fosse abbastanza cinico e lucido per rassegnarsi a non scrivere più. Non sa scrivere ma sa dirigere, diceva di lui Italo Zin- garelli. Aveva il senso della notizia, Angiolillo, e la forza della riconoscenza. Tutti gli amici che lo avevano aiutato durante il fascismo furono da lui ricompensati e riciclati: da Ugo d'Andrea ad Alberto Consiglio, dal giurista Schirò a Marco Ramperti, tanto per far quattro nomi. Io stesso fui assunto con un contratto allora grosso (nel 1945 prendevo 13 mila lire al mese più le spese a pie di lista e gli articoli pagati a parte) perché avevo fatto fare al Tempo uno scoop. Tornato a Catania giusto per vedere che fine avesse fatto la nostra casa bombardata, m'ero trovato in mezzo ai primi moti separatisti: il municipio incendiato, scontri violenti, sangue. Collaboravo a Domenica, austero settimanale che ospitava l'intelligencija poi trasmigrata nell'Europeo di Arrigo Benedetti, così telefonai al Tempo perché vi lavorava un amico di mio padre, Peppino Modugno, giornalistapoeta. Avevo il magico tesserino verde della ACC (commissione alleata di controllo), rilasciato ai «giornalisti democratici» e con quello potei chiamare II Tempo dalla prefettura. Al terzo servizio m'arrivò il telegramma seguente: «grazie, si consideri assunto, quaglieremo (sic) at vostro ritorno. Angiolillo». Era un giornalista-manager, alla Scarfoglio per intenderci, Renato Angiolillo. Aveva il fiuto del grande cronista e l'umiltà delle persone intelligenti. Quando ancora scriveva mi passava il fondo dicendomi: lo pulisca dagli errori. Scriveva sciolto, non c'erano errori ma per lui il ranuncolo non era un fiore bensì un brutto ranocchietto. E non era facile convincerlo. Aveva un po' con tutti un rapporto di amore-odio. L'ho visto maledire un giovine cronista che non era riuscito a portare in redazione la foto del solito morto terribile, caricarlo sulla sua macchina e con quel ragazzo spaventato precipitarsi in casa dell'ammazzato. Dalla quale, mezz'ora dopo, usciva non con una bensì con tutta una serie di fotografie. Era una sorta di Cagliostro del giornalismo, riuscì a incantare personaggi come De Gasperi e Pio XII, al quale, in una memorabile udienza, si rivolse con un «Signor Papa». Ci fu un momento, dopo il 18 aprile del 1948, ch'egli diceva, e non a torto, d'esser lui a gestirò gli uomini del Palazzo, che essi erano nel «suo» partito. Fu senatore a Bari ma nel '56, presentatosi a Rieti non ce la fece. Renato stesso dettò a un imbarazzato redattore la frase finale del resoconto elettorale: «... fra i trombati Renato Angiolillo, travolto dalle macerie del partito liberale. Si consolerà perché se ha pochi elettori in compenso ha molti lettori». Ricco, amatissimo dalle più belle donne sulla piazza, era e rimase sempre un uomo solo. Aveva amici potenti ma preferiva vivere coi suoi redattori. Ci fu un periodo che pretendeva andassimo a cena, tutte le sere, con lui da Nino, in via Borgognona. Nicchiavamo perché era assai caro, almeno per noi, quel ristorante sicché Angiolillo istituì «la mensa». Versavamo, cioè, nelle sue mani le 350 lire che avremmo dato alla Taverna Margutta, e il direttore ci consentiva di mangiare «senza limiti» purché non prendessimo come frutta la banana. Piero Accolti, Enrico Falqui, Carlo Belli e il sottoscritto non toccavamo mai le banane di cui Renato si pasceva; solo Adriano Grande, sì il poeta di Circoli, distratto com'era, regolarmente acchiappava la più bella banana del cesto. E Angiolillo diventava bianco di ira, anche se lì per lì taceva. Sulla via del ritorno al giornale (allora si chiudeva alle tre di notte) mentre Grande confabulava con Falqui, diceva a me a Perino, a Belli: quello là, quel poeta di m. io lo caccio se tocca ancora le banane. Non lo cacciò mai. Ad Angiolillo non piacevano i cortigiani ma se ne serviva. Usava gli uomini politici, adorava i mascalzoni, rispettava i grandi giornalisti-scrittori: da Luigi Barzini junior che volle vicedirettore, a Curzio Malaparte del quale, pur protestando, pagava i conti. Si vergognava di saper essere buono, come quando aiutò l'intera famiglia d'un redattore colpita dalla tbc, fingendo che tutto venisse da un anonimo benefattore. Grazie al suo fiuto, trascurando almeno dieci pretendenti alla direzione arnministrativa, scelse per quell'incarico un giovanissimo redattore: Gianni Letta. E Letta lo seguì negli anni della decadenza raccogliendone alla sua morte la pesante eredità. Direttore, Letta faticò non poco a rimuovere le incrostazioni missine che Angiolillo, sempre più ossessionato dal «pericolo rosso», aveva subito negli ultimi anni di regno. Il Tempo che Letta consegnò al successore voluto dalla nuova propietà era sulla pista d'un nuovo decollo. Ora il portone è chiuso e molti romani sono senza il loro giornale. Ma il vecchio cronista che mosse i primi passi sotto la guida affascinante e ondivaga di Renato Angiolillo, un mix inedito di Bel Ami e di Scarfoglio, sa che presto II Tempo tornerà in edicola. E quel portone in piazza Colonna verrà di nuovo aperto: per la vittoria della libertà di stampa. Igor Man Pubblicò i diari di Ciano Uno scoop che fece epoca pagato con assegni post-datati \ngiolillO lo folldÒ " . , \ QftX\ 1 SOldl \ngiolillo lo fondò con i soldi vinti a poker E=E^^ ft^tC'— Fa *— " %0 - '—"A-VCH=5jrl *fudd*k ^-1 I " _^-££^. **^-.*rrFc«te ieri ri d *i3S!a Trtoatal< 1^^™B® MjMWt^ WM i Anlonello Vendittialla serata oer A sinistra Antonello Venditti alla serata per «Il Tempo», a destra Luigi Barzini V- Da sinistra, Renato Angiolillo e lo scrittore Vitaliano Brancati