Di pattuglia nella notte di Gaza

Pi pattuglia nella notte di Gaia Sfidando le pallottole con i soldati fra i vicoli dei campi profughi Pi pattuglia nella notte di Gaia Retata di arabi: fermati e deportati da Israele DAL FRONTE DELL'INTIF/ADA SSHEIKH RADWAN OTTO la tenda che fa da comando, nell'ufficio in falso teak, il tenente colonnello «Marck», quarantenne sportivo con gli occhiali scuri, mi descrive serenamente i suoi compiti. «Il mio battaglione è qui per garantire la legge e l'ordine. Il nostro è soprattutto un lavoro di polizia. Pattugliamenti più volte al giorno, arresto di facinorosi, cattura di terroristi armati e così via. Devo dire che contrariamente a quello che voi giornalisti raccontate, l'espulsione, in dicembre, di quattrocento fanatici islamici ha notevolmente agevolato il nostro lavoro». Perplessità dell'interlocutore. «Sì, sì, glielo assicuro, dopo tre mesi la nostra zona è così tranquilla che...». Bruscamente, molto vicina, una lunga raffica di mitra buca la notte. La dolce vita qui a Sheikh-Radwan, nella striscia di Gaza, non sarà mai paragonabile a quella del kibbutz «Marek», laggiù in Galilea. Da dicembre, il bilancio dei morti e dei feriti batte tutti i record. In un lampo, il colonnello afferra una mitraglietta e balza fuori. Echeggiano altri colpi. Armi in pugno, il comandante del campo corre a rotta di collo in direzione della sparatoria, mentre sputa ordini che vengono istantaneamente eseguiti. Il campo «Nasser» - che prende nome dalla strada su cui si affaccia - è in piena ebollizione. Decine di soldati balzano fuori dalle tende e corrono ai posti assegnati. Altri, con stivaloni, caschi e scudi in vetroresina, saltano su jeep e camion che si avviano fra gradi nuvole di polvere. La caccia è aperta. Sono le otto meno un quarto. Una notte fredda, ventosa e umida è calata sul campo. La giornata, a dire il vero, è stata tranquilla. Nessun colpo d'arma da fuoco, soltanto routine, finora. Circondato da edifici fatiscenti e da viuzze ingombre di sporcizia e di carcasse d'automobile, il campo Nasser, visto dall'aereo, con le sue tende ben ordinate, appare una macchia color cachi miracolosamente risparmiata dal tumore urbano che la lambisce. Alla sua destra il campo profughi di Shati, cinquantamila palestinesi venuti da Giaffa o da Beersheba nel lontano 1948. A sinistra il miserabile villaggio di Sheikh-Radwan, recentemente costruito dagli israeliani per dar casa ad altri ventiquattromila. Tutt'altro che un successo architettonico, a essere onesti. Sulla lunga muraglia di terra e calcinacci eretta attorno al campo, le sentinelle, nelle loro garitte d'acciaio, attendevano il cambio della guardia quando è scoppiata la sparatoria. «E' da parecchio che non succedeva una cosa del genere qui», mi giura un ufficiale. Possibile. Ma è un fatto che da qualche settimana l'audacia dei palestinesi nei confronti dell'esercito sta passando i limiti. Alle imboscate mortali ai poliziotti di pattuglia si aggiungono le fucilate sporadiche contro le caserme. Finita l'Intifada «soft», nei Territori occupati, e soprattutto a Gaza, contro le forze israe- liane si è scatenata «una vera e propria guerriglia». E' stato Zeev Schiff, l'autorevole esperto militare del quotidiano «Haaretz», a scriverlo. «E non siamo che al primo stadio». Sono le 21, l'ora del coprifuoco. Una delle pattuglie è tornata. I soldati saltano a terra. Uno tira fuori un pugnale da uno stivale, sputa sulla lama, la lustra prima di rimetterla al suo posto. Malgrado il freddo, il sudore gli imperla la fronte. La ragione? Eccola qui che avanza, a testa bassa, i polsi legati dietro alla schiena. Un prigioniero, seguito da un altro, la mano di un soldato sulla spalla. «Sono scappati quando ci hanno visto, siamo riusciti a riacciuffarli senza bisogno di sparare un colpo», spiega fieramente un giovane militare col cranio rasato. I due catturati hanno gli occhi bendati da una fascia bianca. Magra preda. Il primo, che indossa jeans e giubbotto in finta pelle, ha sedici anni, il secondo, in tuta da ginnastica, diciannove. Vietato pubblicare i loro nomi. Vengono fatti sedere a terra, ai piedi di un'alta pertica in cima alla quale sventola la bandiera d'Israele. I prigionieri restano ostinatamente silenziosi. Si attendono gli specialisti dell'interrogatorio, che però non arriveranno fino a domani mattina. Portati sotto una tenda, i due detenuti passeranno la notte al caldo ma con gli occhi bendati e le caviglie e i polsi legati. Non vengono torturati né malmenati in nostra presenza, ma appaiono terribilmente umiliati. Ore 23. Si parte una nuova missione di pattuglia. Dal veicolo di testa, Moshe, il capo del gruppo, si tiene in costante contatto radio con il quartier generale per informarlo di ogni nostro spostamento fra i vicoli di Sheikh-Radwan e Shati. Incrociamo una sola altra vettura, sormontata da un faretto che illumina un drappo azzurro. «Nazioni Unite» dice qual- cuno con malanimo. A parte l'esercito e la polizia israeliani, soltanto i funzionari internazionali e le ambulanze della Croce Rossa hanno il diritto di circolare durante il coprifuoco. Passiamo vicino alla grande moschea, fortemente illuminata dall'interno e costellata di graffiti tracciati dai militanti nazionalisti. Niente si muove. Un po' più in là, Moshe fa arrestare i due camion. Motori accesi, fari spenti, tutti scendono e avanzano a piedi. A vederli a distanza, con i caschi e i giubbotti antiproiettile indossati sopre le divise, gli uomini hanno l'aria di robot. Le strade sono piene di ciottoli, di immondizie e di ferraglia. Quasi tutti dormono, la notte è nera, i soldati sono muti. «Quando sei di pattuglia, sta' sicuro che hai paura - mi aveva detto stamattina un giovane coscritto di Ashkelon -. Qui nessuno è Rambo». La paura è il sentimento più condiviso in questo territorio. L'unico davvero condiviso, forse. «Allah-u-akbar!». L'urlo, come quello che lancia il muezzin, sorge all'improvviso non si sa da dove. Moshe non cerca più. Lancia un ordine. Tutti corrono verso i camion. Quando un grido come quello risuona nel cuore della notte all'approssimarsi dei soldati, mi spiegheranno più tardi, vuol dire che c'è una vedetta palestinese, uno di quegli agili ragazzini che popolano i campi, a localizzare i militari e chiamare rinforzi. Fuori questione farsi sparare addosso sotto gli occhi di un giornalista. Moshe non è tipo da mettere in pericolo i suoi uomini per un po' d'inchiostro su un pezzo di carta. Ritorno a campo Nasser. E' l'una passata. Il colonnello «Marek» è rientrato, con le tasche piene di bossoli di khalashnikov. Gli autori dell'attacco sono svaniti nella notte. «Fuggiti, come al solito - dice con astio uno dei soldati -. Fa niente, sarà per un altro giorno». Patrice Claude Copyright «Le Monde» e per l'Italia «La Stampa» Raffiche di mitra nel buio | Un grido, poi la fuga «Paura? Sì, mica siamo Rambo» ■ | Perquisizioni e arresti tra i palestinesi sono continui in questi giorni (FOTO AP)

Persone citate: Nasser, Patrice Claude, Radwan, Rambo, Zeev Schiff

Luoghi citati: Gaza, Israele, Italia