Calandri delle farfalle

Paulucci ricorda l'amico Paulucci ricorda l'amico Calandri delle farfalle /N IE c'è - mia forse c'è davL ' vero - un paradiso per w gli artisti, reparto incil | sori, Mario Calandri, AZJcosì solitario e schivo com'era, certo si troverà a suo agio. Sarà un luogo appartato, stipato di farfalle trapunte, di vasi, barattoli e foglie secche, grandi ortensie e grilli e coleotteri e falene; una finestra sul pallido azzurro della vecchia Torino: il suo mondo. Poi, pochi passi fuori, in una grande aula, giovani intenti su lastre di zinco e di rame, i piani scorrenti d'acciaio, i cilindri rotanti su feltri e fogli inumiditi, inchiostri e odori di ceri fumanti, e vernici e catrami; anche qui Mario e ancora il suo mondo: che si era ritagliato in questo altro mondo d'oggi, di agitati e di instabili, di insofferénti e nevrotici, di insaziabili scalatori. Perché noi, che gli fummo tanti anni vicini, così Mario ce lo ricordiamo: mai da lui parole aspre, giudizi cattivi, inutili lamentele, ambiziosi progetti, malignità. Ci mancherà davvero, Mario Calandri: incontrarlo era una parentesi rasserenante in questo nostro mondo inquie- - 4K to, maestro , * com'è stato non solo di raffinate e sapienti pagine incise, ma sereno, insostituibile maestro di vita. L'ho sentito l'ultima volta una quindicina di giorni fa. Una telefonata breve, a suo modo affettuosa. Di là, una voce non arresa, ma stanca: «Non esco più. Non me la sento. Disegni? Incisioni? Mi manca l'energia». Chissà come trascorreva il tempo. Forse leggeva il «suo» James, il James del Giro di vite così intonato al «gotico», enigmatico spirito che era. Figura plasmata in una radicale solitudine, ha attraversato la stagione toccatagli in sorte con l'educazione, la levità, il passo meraviglioso e meravigliato del fantasma. Avvolto nel massimo riserbo, è rimasto fedele, sempre, a un unico compagno: se stesso. Ostinata, ferrea disciplina, attenuatasi di fronte alla devozione di un allievo, che negli ultimi anni, fino al commiato, ha ottenuto di potergli stare accanto, di accudirlo, di confortarlo. Un rapporto maestro-discepolo esemplare, inesorabilmente «datato», purtroppo. Abitava in via Carlo Alberto, Mario Calandri. Una casastudio colma di oggetti, inquieti, estremi scampoli del mondo di fuori: non aveva bisogno di frequentarlo per conoscerlo, per «catturarlo» e reinventarlo con rara, magistrale sapienza. Dotato di una «Rose», puntase cca del 1948 sensibilità rarissima, ne captava ogni nervatura, lo allineava di fronte al suo integro specchio morale, gli offriva una dignità spesso sconosciuta. Ho incontrato per la prima volta Calandri, l'allievo di Marcello Boglione, nel 1940, quando fui chiamato all'Accademia Albertina. Lavorava nell'antica «officina», sotto i tetti: paziente, tranquillo, meticoloso, preciso, come sono gli incisori. Com'erano Morandi e Bartolini, i «vertici» a cui l'amico scomparso può essere accostato senza timore di sbagliare. Godeva di una stima profonda: sotto la Mole (da Casorati a Menzio, ai critici) e altrove, anche se scontò il clima di questa capitale, che non ne vuol sapere (o è incapace) di fungere da cassa di risonanza delle energie migliori. Nel '57 Calandri succedette a Boglione, ereditando una scuola eccelsa, tra le maggiori d'Italia, divenuta sotto la sua guida la principale. Saroni, Gatti, Soffiantino...: non sono pochi gli artisti «maiuscoli» forgiati dal ritroso e pudicissimo Mario. Sì, lo fotografò bene Sergio Saroni introducendo nell'87 il catalogo Allemandi della mostra che volle dedicargli l'Accademia Albertina: «Il naturale riserbo, fatto di ritrosia e di pudore, l'isolamento anche mondano di questo pittore, sono il prodotto di uno stile di vita che risponde chiaramente alle esigenze di un carattere, di un temperamento e comportamento umani e culturali molto singolari, quali si incontrano se non esclusivamente, sovente nell'artista di grande talento, e rispondono sopra ogni cosa a una certezza morale; e cioè che nella vita di un artista, ciò che conta veramente è soltanto l'atto poetico e la propria totale disponibilità a sostenere quell'atto». Ecco: ciò che conta «è soltanto l'atto poetico», incorruttibile. E' la verità che mi conforta in quest'ora dolorosa, che mi permette di avvertire vivo Mario (e con lui Sergio Saroni, che lo ha preceduto), di intravederlo ostinato e felice (la felicità di chi crea, di chi obbedisce a una vocazione, di chi trasforma la vocazione in professione) nelle sue opere: i baracconi di notte, le viole, i fichi neri, le ortensie, i fantocci, le marionette, i polipi e i granchi, il libeccio, il labirinto, le maschere, il museo delle cere, l'iris, gli acrobati, l'iguana, gli insetti, i fiori sotto vetro che sarebbero piaciuti al mio Gozzano. Enrico Paulucci - 4K , * Mario Calandri: «Primule» del 1986, incisione originale su zinco «Rose», puntasecca del 1948

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