Mariotto, «borghese sovversivo» nemico della prima Repubblica di Amintore Fanfani
Mariotto, «borghese sovversivo» nemico della prima Repubblica Mariotto, «borghese sovversivo» nemico della prima Repubblica DI UN GENTILUOMO ROMA ARIOTTO? Finirà come Milazzo», confidava nelle ultime settimane Giulio Andreotti facendo la vocina maligna che usa quando crede di aver azzeccato la battuta. Silvio Milazzo, siciliano della corrente di Sceiba, nel 1959 formò una giunta regionale con dissidenti della de, del pei, del psi, del psdi e con un gruppo di monarchici popolari. Il partito lo espulse. Ma evocare Palermo stavolta non gli ha portato bene: non solo i giudici isolani l'hanno sospettato di attività mafiosa, ma non ha neanche azzeccato la scommessa sul destino del leader referendario, che ha sempre trattato con un po' di sussiego («Io non posso vedere Segni fuori dal cammino dei Santi, non foss'altro per il rapporto che ho avuto con suo padre»). Mariotto Segni, battezzato proprio così, Mariotto, come un remoto omonimo che edificò il castello di Poppi per conto di Lorenzo de' Medici, era già tanto tempo che aveva lasciato il cammino dei Santi. O dei diavoli? Anzi, forse non è mai stato un democristiano vero. Lontano mille anni-luce dal prototipo del democristiano di successo della sua generazione, per capirci alla Cirino Pomicino, una volta confidò: «Se proprio si volessero individuare le radici politiche e psicologiche della mia contestazione all'interno della de, occorrerebbe scandagliare nei miei ricordi giovanili». Di più non volle dire, ma i ricordi giovanili coincidono con il periodo di fulgore politico di suo padre don Antonino, prima grande leader de, poi Presidente della Repubblica accusato di aver nutrito tentazioni golpiste, accuse che Mariotto ha sempre respinto con sdegno. Sapete qual è l'episodio di quegli anni che ricorda sempre? Il congresso di Firenze del '59, lo stesso anno della giunta Milazzo evocata da Andreotti, quando suo padre si scontrò duramente con Fanfani, che già voleva aprire ai socialisti. «Alla fine del congresso - ricorda con rimpianto - risuonavano le note di Biancofiore. Tutto il tavolo della presidenza, con mio padre, Fanfani e Attilio Piccioni si alzò in piedi con le lacrime agli occhi tra la cor-mozione generale». Quella era la de delle idee, della spinta vitale, altro che il partito delle correnti, corrotto, occupato a spartirsi quote di potere, infestato dagli Sbardella che a colpi di miliardi tangentizi si gonfiano di tessere fasulle. Difficile dirgli che anche quella de non era poi un granché e che molti guasti son radicati proprio lì. Certo gli Sbardella non avevano ancora corroso tutto il corpo del partito. Mariotto, così gentiluomo, così dosato nell'usare gli aggettivi, più portato a parlare di idee che non di uomini, con quel suo eloquio un po' piatto, con lo Squalo ha quasi un fatto personale. Tre anni fa chiese a Forlani di indagare sulle fortune della famiglia e sugli incarichi pubblici della signora Nuccia. Il segretario non lo filò proprio, neanche gli rispose. E Mariotto, del resto, avrebbe magari fatto meglio a chiedere conto dell'orgia di appalti a trattativa privata distribuiti del ministro forlaniano dei Lavori Pubblici Gianni Prandini. L'estate scorsa lo Squalo si vendicò mettendo in giro la storia del Segni novello Gelli, che è tornata in questi giorni nel velenoso dossier anonimo consegnato da Mariotto al procuratore della Repubblica di Roma. «Forse evocano Gelli - ci disse la moglie Vicky - perché io sono uruguaiana e Gelli ha molte proprietà in Uruguay». E lui: «Non mi stupisco, perché so chi è Sbardella. L'impressione terribile è vedere i massimi capi della de, De Mita e Forlani, manovrati come burattini da Sbardella. A Rimini, al meeting di Comunione e Liberazione Gava non c'era, ma era come se ci fosse. Tentano un'impossibile difesa di Tangentopoli. Se la de è questa, può pure chiudere bottega e dichiarare fallimento». Può stare in un partito chi ne pensa questo? Nell'agosto scorso, in realtà, Mariotto aveva già deciso di lasciare, forse con qualche remora, ma aveva deciso. Poi c'era stata la breve speranza nella segreteria Martinazzoli, fulmineamente delusa. Vedendo gli uomini scelti dal segretario per il rinnovamento dev'essersi congratulato con sé stesso, perché sono anni che va ripetendo, scagliandosi contro la lottizzazione correntizia: «Al peggio non c'è limite, perché i vassalli raramente sono migliori dei feudatari e i valvassori dei vassalli». «Aristocratico», dicono di Mariotto i democristiani. Cosa intendono con questa definizione? Che non è in sintonia con un partito «popolare» come la de. Ma sottintendono anche che la sua visione «elitaria» della politica ha un che di massonico. De Mita non gliela mandò a dire: «E' un burattino nelle mani di Cuccia», esplose, spiegando che la funzione assegnata dai «poteri forti» (e massonici), l'Alta Banca e la Grande Industria, a Mariotto è quella di liquidare il sistema politico attuale, non ponendosi minimamente né il problema del dopo, né della ricomposizione. Ma che c'è più da ricomporre a questo punto? «Trasformista»: il Mariotto che si commuoveva alle note di Biancofiore e che adesso piccona il sistema, per Ugo Intini è «l'erede di una dinastia aristocratica e partitocratica che si scaglia contro i partiti, un campione del trasformismo e della demagogia». Ha buon gioco Mariotto quando sente questi discorsi a ironizzare: «Noi aristocratici della politica? Abbiamo avuto 27 milioni di voti nel referendum sulla preferenza unica. Chi è più popolare di noi?». E il campione del trasformismo è oggi per lui Leoluca Orlando, che ha tradito il fronte del Sì. In realtà, il pacato professore sassarese di diritto che ha contribuito a scardinare la prima Repubblica è un borghese, una specie rara e incompresa in mi Paese in cui i borghesi scarseggiano e i liberal-democratici finiscono per apparire come sovversivi. Per il tormentato Martinazzoli, ieri sera con la secessione di quel borghese sovversivo di Mariotto, che gli eviterà di fargli fare la fine di Milazzo preconizzata da Andreotti, è finito un «tormentone». La de si libera.di un corpo estraneo. E di un sardo: «Di sardi ne abbiamo avuti fin troppi», ha sempre detto Antonio Gava. Peccato per lui che in queste ore non possa compiacersi, impegnato com'è con i guai giudiziari. Ma i tempi scelti da Mariotto per una decisione così a lungo meditata sono stati quelli giusti? O ha ragione Cossiga, che gli rimprovera di aver deciso un minuto troppo tardi, quando la de è ormai spappolata? «Solo Napoleone ad Austerliz - ama dire Mariotto riuscì a fare un piano attuato perfettamente. Ma mi pare sia l'unico esempio nella storia». Alberto Staterà «Aristocratici? Siamo noi i veri popolari del partito» «Quello di mio padre è stato il partito delle idee, non infestato dagli Sbardella che a colpi di miliardi si sono gonfiati di tessere fasulle» Nella foto grande Mario Segni che ieri pomeriggio ha deciso di lasciare la de. Di fiainco Vittorio Sbardella. Sotto Amintore Fanfani
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