Velàzquez che Madonne

Scoperte e capolavori barocchi all'isola di San Giorgio Scoperte e capolavori barocchi all'isola di San Giorgio Velàzquez, che Madonne Nel «secolo d'oro» della Spagna VENEZIA I volle l'avvento del Romanticismo, con l'infatuazione per la vagite popolareggiante, la poetica del pittoresco, del primitivo, del macabro, per rendersi davvero conto della grandezza fosca, trascurata e forse anche un poco temuta, di quello scrigno di cultura rimasto sino allora intoccato che era l'universo spagnolo, considerato acquitrino di brigantaggi ed intolleranze inquisitorie. Tesoro considerato snobisticamente indegno dagli itinerari illuministici del Grand Tour («Che cosa mai dobbiamo alla Spagna?», si domandava sordo e sprezzante l'abate Masson de Moryilliers nell'Enciclopedia), patrimonio trascurato, per quanto riguarda la pittura, anche dai minuziosi e pur curiosi sistematoli della memorialistica post-vasariana: Ridolfi, Boschini, Baldinucci. Nulla: un inquietante cratere buio. Sinché venne la moda: l'euforica tachicardia delle nacchere scivola subdola dentro i languori salottieri di Chopin, Théophile Gautier grida con Merimée al «miracolo» di questa miniera «repentinamente» scoperta sotto le viscere dell'oblio, Manet si fa coraggiosamente pittore spagnoleggiante. Siamo abitualmente contrari a certe equivoche iniziative d'esportazione (le ultime che ci rimangono, in questi anni di pauperistici scambi commercial-culturali) che depredano intieri musei per foraggiare mostriciattole prive di ogni baricentro, che spaesano artisti e correnti. Ma questa, Da Velàzquez a Murillo, fortemente voluta dal governo dell'Andalusia, dalla Fondazione Cini e dall'Olivetti all'Isola di San Giorgio, è altra cosa: perché non si tratta di meccanicamente trapiantare un ignavo piano di museo, ma di reinventare un intiero, trascurato periodo. Verificare se esiste un «Siglo de Oro» anche nella pittura andalusa, perché è certo che, con l'eccezione di Coello a Madrid, del Greco a Toledo, di Ribe- «Madonddella most/ maestfannelle stall ra a Napoli, la grande pittura barocca in Spagna è tutta incentrata intorno a Siviglia, ricco porto aperto sulle Americhe, «Roma triunfantes de animo y grandeza», come scriveva Cervantes. Ed il convincente saggio di Arsenio Moreno Mendoza, nell'articolato catalogo Electa, ricco di riferimenti anche storici, proprio questo dimostra: la consistenza di una tesi, che la rassegna di quadri benissimo documenta. Non una mostra di presunti capolavori, ma di una ben concertata famiglia di tele, che delineano un preciso itinerario: dalle anchilosate madonne-matrone di Pacheco, irrigidite in un rigor manierista da immaginetta sacra, alle vaporosità nervose e barocche di un minore, dal poetico cognome di Risuèno. Ri-sognare un momento nodale di pittura. In cui il «poco decoroso» Juan de Roelas (secondo il trattatista Pacheco, che ha l'unico merito d'esser stato maestro e suocero di Velàzquez, «gloria dei miei ultimi anni») immette nelle sue tele teatrali potenti iniezioni di color veneto, prelievi sapienti di Tintoretto e Veronese: quasi un viatico lagunare portato agli amici in Spagna. Ed intanto, ai piedi della placida Vergine tizianeggiante, un lottesco gattino ruba da un cassetto lasciato sbadatamente aperto una gala di pizzo, sotto lo sguardo sprezzante di un cagnino che lo squadra commiserandolo. Quanti cassettini casalingamente socchiusi, quanti fram¬ menti di nature morte, in questi quadri che il luogo comune vuole iscrivere sotto la pomposa categoria del «naturalismo»: ma non c'è mai qui la crudezza realistica di Caravaggio e Ribera, semmai questo prodigioso misticismo del quotidiano, che rende sacro perfino un dialogo di due sommesse carote («Dio va anche tra le pentole», predicava Teresa del Gesù) e permea i gesti commoventi della Madonna di Sànchez Cotàn (più noto per i suoi bodegones), madre-bambina che sveglia Gesù con una certa impazienza contadina, perché intanto la tornila si sta già raffreddando, sollevata da un periclitante cucchiaino nel recipiente di peltro. Come un universo minimo, modesto, gentile, che si rattrappisca per il freddo prima di spiccare il grande salto, nelle macchine burrose e sopranìli delle pale d'altare barocche di Alonso Cario e Herrera il Giovane, nello schiocco attonito, esterrefatto di materia cromatica, delle raffaellesche Immacolate di Murillo. E' il mondo ridotto e affabile degli abbordabili santi di Zurbaràn, che sovverte le Sacre Scritture per immaginare episodi di micro-Bibbia da stalla: San Lorenzo che si porta confidenzialmente la graticola sotto braccio come fosse una vanga, le molte Vergini adolescenti, che abbandonano per un attimo il fuso onde volgere il viso paffuto a Dio o, sulle loro seggioline per mungere, si lasciano trascinare nel sonno dal peso adulto del grande Messale, che scava i miseri panni. Ripetiamo: una mostra non di tutti capolavori, ma di intelligenti proposte. Né basta la presenza di un ardimentoso, luca-giordanesco San Tommaso (forte nel dubbio della carne) del periodo siyigliano di Velàzquez ad esaurire la sua prodigiosa modernità («tutto il resto sembrava pittura, ma soltanto questa verità», diceva di lui il Palomino). Sono semmai più interessanti le scoperte. L'eleganza cortigiana e genovese di Santa Paola che s'imbarca per la Terra Santa di Herrera il Vecchio, oppure la stupenda Adorazione di Ruiz de Sarabia, con i pastori che vengono dal nero di Ribera e s'arricciano pitoccheschi come cartigli. I sorprendenti interni galanti di Valdés Leal (non a caso amato da Baudelaire) con scurori teatrali, anticipatamente verdiani e accesi da fiammelle rubensiane, o la curiosissima vanitas di Pedro de Camprobin, con il giovane fatuo, che tra carte, libri, chitarre, dialoga inutilmente con una bella dama che lascia sgusciare dalla bautta solo una pupilla vezzosa e monitoria: mentre sotto i veli già traluce lo scheletro. Marco Vallora / maestri andalusi fanno rivivere la Bibbia nelle stalle contadine «Madonna con il Bambino» di Murillo. Il catalogo della mostra è edito da Electa «La Vergine bambina assopita» di Zurbaràn e, sotto, «San Tommaso apostolo» di Velàzquez: all'Isola San Giorgio per la mostra dedicata alla Spagna del Seicento