«Il tritolo dei boss contro Palazzo di giustizia»

TRA MAFIA E POLITICA Il piano scoperto grazie ad una intercettazione: arrestato il presunto artificiere, fermati i 2 complici «Il tritolo dei boss contro Palazzo di giustizia» A Palermo la Dia sventa un attentato PALERMO DAL NOSTRO CORRISPONDENTE La mafia preparava un attentato nel palazzo di Giustizia di Palermo. Sarebbe dovuta scoppiare una bomba. Un'altra tragica esplosione ordinata dai boss dopo quella in cui l'anno scorso sono stati massacrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli agenti di scorta. Ma stavolta il piano è stato sventato in tempo grazie aduna «pulce elettronica» collocata nell'alloggio di uno degli indiziati, un piccolo boss di paese, Antonino Gioè, 37 anni, che è stato arrestato. Gioè sarebbe stato tradito da una conversazione con un amico in cui avrebbe parlato di un «botto» previsto tra le 4 e le 5 nel palazzo di Giustizia. In quale giorno non si sa. L'operazione è stata condotta venerdì scorso dalla Dia, la direzione investigativa antimafia. E negli ambienti della Dia non è piaciuta la fuga di notizie, che comprometterebbe indagini che avrebbero portato ad esiti ben più clamorosi. E mentre a Palermo veniva localizzato ed ammanettato Gioè, a Milano la Dia intercettava altri due che sarebbero poi implicati nel progetto, fuggiti da Palermo venerdì stesso: Giuseppe La Barbera, 34 anni, che è stato bloccato in piazza San Babila, e Salvatore Bentivegna, 43 anni, che al momento risulta fermato. Mentre Gioè è stato già sentito dai giudici, i due da Milano sono stati trasferiti a Roma. Qui saranno interrogati domani forse nel carcere di Rebibbia. La Barbera e Bentivegna si troveranno faccia a faccia con il gip Gioacchino Scaduto, lo stesso che di recente in un lungo e documentato dossier ha ricostruito l'ultimo sconvolgente decennio della mafia siciliana. Per ora l'accusa è di associazione per delinquere di stampo mafioso. Ma si pensa che sia possibile addebitare loro anche l'imputazione di traffico di stupefacenti. Gioè, La Barbera e Bentivegna sono di Altofonte, un paesone nella cintura di Palermo, dove la mafia è sempre stata compatta e sanguinaria. La cosca di Alto- fonte fu tra le prime ad allearsi con quella dei corleonesi di Totò Riina e il suo boss, Franco Di Carlo, è sospettato di avere strangolato Roberto Calvi. Di Carlo sta scontando 25 anni di carcere a Londra per traffico di droga. Ufficialmente disoccupati e senza fonti di reddito, i tre disponevano di automobili lussuose, telefonini cellulari, abiti da milionari. Di Antonino Gioè c'era stata occasione di parlare quattordici anni fa, nel 1979, quando il capo della squadra mobile Boris Giuliano assassinato poco dopo in un agguato al centro della città, lo fece arre- stare dai suoi agenti in un barristorante in via Francesco Crispi vicino al porto. Gioè era con Antonino Marchese, condannato all'ergastolo nel primo maxiprocesso a Cosa Nostra e fratello di un pentito. I due stavano tentando di recuperare una pistola che sembra avessero dimenticato nel locale. I successivi accertamenti condussero Giuliano nel nascondiglio di Leoluca Bagarella, il cognato di Totò Riina. Qui furono trovati 3 chili e mezzo di eroina e - altro particolare che adesso fa pensare - anche tracce di Salvatore e Melchiorre Sorrentino, due fratelli pure di Altofonte vittime della «lupara bianca». Giuliano non mollò la presa e di lì a poco nell'aeroporto di Punta Raisi scoprì una valigia con 600 mila dollari proveniente dall'aeroporto di New York. Antonio Ravidà Antonino Gioè, in cella per il fallito attentato