I nuovi tartari e il babau rosso

I nuovi tartari e il babau rosso DIARIO DI MOSCA I nuovi tartari e il babau rosso MOSCA LLORA, Aleksandr Nikolaevic, davvero tornano i comunisti in Russia? Aleksandr Jakovlev, l'ex braccio destro di Gorbaciov, uno dei cervelli della perestroika, scuote la testa. «Suvvia, non mettiamo le cose in questo modo...». Ma Eltsin proprio questo dice: che arrivano i rossi. E proprio su questo fonda la sua decisione sul regime di gestione speciale, che poi è una locuzione che nessuno sa ancora cosa significherà. «Intanto - replica Jakovlev - io non penso che si debba abusare del termine comunista. I comunisti hanno diritto di esistere, come tutte le altre idee e forze politiche. Mica li vogliamo demonizzare? E poi, francamente, quelli che erano comunisti sul serio, gli onesti, quelli che ci credevano, si sono messi tutti dalla parte della democrazia». Forse Eltsin voleva dire un'altra cosa? «Non so cosa vuol dire Eltsin. Io penso che i comunisti cui si riferisce siano gli stalinisti, i figli di un'esperienza deformata, mostruosa. Ce ne sono tanti in questo Paese, anche se non penso davvero che possano tornare al potere. La gente non li vuole. La gente se li ricorda troppo bene. Anzi direi che ciascuno di noi ha paura perfino di quella parte di se stesso che è stata infettata da quell'esperienza. Per i più giovani non vale, ma per tutti gli altri è ancora viva. E nessuno vuole che riemerga. Siamo tutti malati latenti, per fortuna ora lo sappiamo. E questo è l'antidoto». Riflette, rimugina a lungo. Nel processo a Gorbaciov, organizzato dagli stalinisti, il suo nome è tornato molte volte. «Anima nera», «agente della Cia».. «Il pericolo è un altro: l'unificazione di tutto il lumpen che si è depositato nella società in quei decenni che ci siamo lasciati alle spalle. Un lumpen che è composito, fatto sì di stalinisti, ma anche di nazionalisti, sciovinisti, fascisti più o meno consapevoli, razzisti, anti-occidentali, antisemiti. Se proviamo a cercare il denominatore comune di questo groviglio ne troviamo uno solo: è l'unione di tutte le forze anti-democratiche, un sommovimento che viene dal profondo di questa società. Tanto profondo che per trovarne le origini bisogna andare più indietro nel tempo, ben oltre i settant'anni del comunismo, ongi I dieti I sette negli abissi della storia russa». Mentre Jakovlev parla io cerco nella mia memoria le tracce di una sua vecchia profezia, mi pare del 1987, formulata per mettere in guardia i riformatori da passi avventati: attenzione, aveva scritto, che se commettiamo errori apriremo il varco a una rivincita di tutti i rigurgiti del passato, tutti insieme. E sarà una rivincita aggressiva e implacabile. Vale ancora quella profezia? «Vale ancora. I riformatori devono capire che il processo è lungo, che non ci sono scorciatoie. Milioni di persone non hanno ancora imparato a lavorare. Vivono nell'abitudine di uno Stato lontano da loro, paterno e crudele, che elemosinava briciole, ma che quelle briciole garantiva. Lasciarli al loro destino, che non possono comprendere, significa farseli nemici». Sembra di sentire di nuovo l'uomo della perestroika, l'«evoluzionista» che frenava; gl'intellettuali impazienti che volevano da Gorbaciov tutto e subito. Mi chiedo se Eltsin non avrebbe fatto bene a chiedergli di entrare nella sua «squadra». Forse era troppo amico di Gorbaciov. «Per ora siamo nella fase in cui avviene la distribuzione della proprietà statale. La lotta furibonda, politica e istituzionale, cui assistiamo è solo l'epifenomeno. Sarà una lotta lunga e feroce...». Appunto. E ci saranno due modi per gestirla: restare dentro un quadro di regole accettate da tutti. Oppure procedere per colpi di mano, per rivoluzioni successive, scatenate, volta a volta, dalle forze che prendono il sopravvento. Qual è la scelta di Eltsin? Aleksandr Jakovlev ci pensa su a lungo. Poi risponde: «Eltsin è un evoluzionista. Lo si può giudicare in modi diversi, ma ha diritto di chiedere il referendum su se stesso». Solo questo? Lui sembra chiedere molto di più. «Io non ho ancora visto i suoi decreti. Vedremo». Giù Netto Chiesa »sa^J

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