Samira 4 anni bosniaca Quando l'orrore non ha età

Catturata dai miliziani serbi, è stata violentata come la madre Catturata dai miliziani serbi, è stata violentata come la madre Samira, 4 anni, bosniaca Quando l'orrore non ha età DELLA GUERRA IZAGABRIA NDOSSAVA una tutina giallo canarino che le era stata regalata all'ospedale, i capelli chiusi in una coda di cavallo, i grandi occhi marroni senza espressione. Il referto del medico diceva che Samira era nata nel 1989, aveva difficoltà a urinare e defecare ed era stata sessualmente violentata. Quando la madre l'aveva trovata, era svenuta. Aveva un po' di schiuma agli angoli della bocca, era senza mutandine e il sangue che le colava fra le gambe. Sabrija Gerovic prese sua figlia e la portò fuori per lavarla alla pompa sotto l'acqua fredda e farle riprendere i sensi. «Un cetnico mi si avvicinò e mi chiese se sapevo chi avesse violentato mia figlia, dicendomi che lo avrebbe ucciso con le sue mani». Il suo nome era Mato ed era l'unico «cetnico buono» che aveva incontrato in quei sei mesi. Quella notte Mato entrò furtivamente nella sua stanza di prigioniera con un uovo sodo e un po' di pane per la piccola. Disse che era spiacente per quello che le avevano fatto. Il giorno successivo Samira disse alla madre che «un uomo l'aveva toccata». Poi, non ne parlò più. Oggi Samira e sua madre sono al loro dodicesimo giorno nell'ospedale di Tuzla. Sono fuggite dall'ultima enclave musulmana bosniaca, nel nord della Bosnia, perché stava cadendo nelle mani serbe. Lo stupro di Sabrijia Gerovic e le violenze sessuali alla figlia di quattro anni sono il conto che questa famiglia paga in una guerra che ha fatto 130 mila morti. Ventimila donne sono state violentate e metà della popolazione, quasi tutti musulmani bosniaci, è stata costretta a lasciare la sua casa. La politica serba di «pulizia etnica» prosegue mentre le truppe delle Nazioni Unite si muovono faticosamente nella Bosnia, impedite a entrare nelle zone dove le violenze continuano. Le uniche prove che quanto Sabrija Gerovic dice è vero sono alcune macchie rosse sul petto dove, dice, è stata picchiata mentre la violentavano e una diagnosi ginecologica di imene rotto per la figlia. Sabrija Gerovic aveva lasciato la scuola a 12 anni e a 15 aveva incontrato e sposato Hasan. Lui aveva 22 anni e un buon lavoro come autista di furgoncini. Erano andati ad abitare in una casa nel centro di Zvornik e fino al 15 maggio dello scorso anno lui lavorava con il suo camioncino e lei nei campi. Quel giorno, a mezzogiorno, Sabrija percorreva una galleria per raggiungere la cognata: dovevano piantare le patate in un campo a un paio di chilometri dalla città. Samira e l'altra figlia. Amira, di appena tre mesi, erano con lei. Dal buio sbucarono sette uomini che la spinsero su un camion coperto insieme alle bambine. Ricorda: «Imprecavano contro di me, dicevano «Cagna musulmana». Sul pavimento del camion c'era del sangue, le scarpe si imbrattarono tutte. «Non mi han- no fatto male né mi hanno picchiata, hanno guidato il camion per circa mezz'ora finché siamo arrivati in un posto chiamato Pilnica». Mentre guidavano, gli uomini le dissero che l'avrebbero «presa, perché ero una cagna musulmana». A Pilnica c'era una fattoria di polli, prima della guerra. I polli vivevano nel buio di una baracca con il pavimento di cemento. Ma il 15 maggio la baracca era strapiena di gente arrivata dalle città di Zvornik, Tuzla e Vladinica. «C'era così tanta gente che qualcuno non riusciva nemmeno a respirare. Portavano fuori chi sveniva ma intanto ne arrivavano degli altri, che venivano spinti dentro. Eravamo sempre più schiacciati». Un ragazzo di nome Moustaffa, che veniva dalla città di Olovo, aveva cercato di proteggerla. «Era molto gentile e mi difese con il suo corpo. Spingeva la gente lontano per darci un po' d'aria. Ci ha salvato la vita». Dopo due notti entrò una donna di nome Marija, che Sabrijia ricorda infermiera nell'ospedale di Zvornik. Aveva circa 21 anni ed era serba. «Prese la mia Amira, che allora aveva tre mesi e tenendola per le gambe e le braccia la buttò contro il muro. E intanto diceva: «Dov'è adesso il vostro Alija (Alija Izetbegovic, il presidente musulmano della Bosnia)?». Poi mi portò in una stanza dove c'era un po' di paglia sul pavimento e altre dieci donne - donne come me, poco più che ventenni. Io ero l'unica con figli». Nella stanza vicina c'erano le ragazze fra i 15 e i 19 anni. «Ogni sera le portavano fuori». Una notte entrarono nella stanza due uomini e portarono via la piccola Samira. «Rimase fuori 24 ore, a mezzanotte della notte successiva venne un uomo e mi disse di seguirlo per prendere mia figlia. Entrai in una stanza. Era vuota, c'era soltanto un tavolo. Mi dissero di spogliarmi. Rimasi completamente nuda e loro erano in sette. Mi violentarono tutti. Ave- vano bevuto ma solo due erano veramente ubriachi. Uno mi picchiò sul petto». Scosta il bavero macchiato della sua logora vestaglia blu e mostra le macchie rosse intorno al seno sinistro. «Mi hanno picchiata qui» dice. «In mezzo alla stanza c'era una tenda e quando i sette ebbero finito mi dissero: «Vai a prendere la tua bambina». Andai dietro la tenda e lei era nuda, la testa blu, la schiuma intorno alla bocca. Non aveva le mutandine e c'era un sacco di sangue che le colava fra le gambe. Ho capito che avevano violentato anche lei». Saliva è arrivata a Tuzla 12 giorni fa, dopo averne passati dieci ad attraversare le montagne dalla città di Cerska, assediata per undici mesi. Era stata liberata in uno scambio di prigionieri dopo aver passato gli ultimi quattro mesi della sua prigionia nel carcere di Batkovic dove, racconta, non è stata violentata ma soltanto picchiata. Aveva deciso di attraversare le montagne dopo che suo marito, un soldato, era stato ucciso da un cecchino a gennaio. «Non c'era più ragione di stare - dice i cetnici si avvicinavano sempre di più e il cibo stava finendo. Dovevo tentare di portar via i miei figli». Saliva ha portato le sue bambine attraverso le montagne fino a Tuzla. «Eravamo in tanti, ma qualcuno non ce l'ha fatta, è caduto nella neve ed era troppo debole e affamato per camminare ancora». Ieri, nel reparto infantile dell'ospedale di Tuzla, ha detto di essere contenta perché è ancora viva. Non aveva soldi e nessuna prospettiva di essere accettata in Occidente, che ha virtualmente chiuso le porte ai rifugiati dalla Bosnia. Ha detto di non sapere se sua figlia ricorda che cosa è successo. «E' più tranquilla adesso di un tempo e vuole sempre che io le stia vicino». Maggie O'Kane (copyright «The Guardian» e perl'ltalia «La Stampa») «Un cetnico mi ha chiesto se sapevo chi dei suoi compagni l'aveva fatto perché voleva ucciderlo con le sue mani Era l'unico buono che ho incontrato» Nella foto grande 2 piccoli profughi bosniaci nel campo per rifugiati di Skopje in Macedonia. Sopra un miliziano con un bambino

Persone citate: Alija Izetbegovic, Gerovic, Sabrija Gerovic, Saliva

Luoghi citati: Bosnia, Macedonia, Pilnica, Skopje