Carol Rama sesso figlio di follia

Dal Castello di Rivoli alla Biennale: l'avventura di una grande pittrice Dal Castello di Rivoli alla Biennale: l'avventura di una grande pittrice Carol Rama, sesso figlio di follia «In amore meglio una mummia di un uomo» Yfl TORINO 1/ ALLETTA, non ancora W diplomato, era un impieV gato di mio padre. Mio I 1 padre, canavesano, faceva l'industriale, costruivano le automobili Kiribiri. Quando andavo in fabbrica, Valletta mi dava una carezza sulla guancia e mi chiedeva: "Come va a scuola? Cosa ti piace?". E io rispondevo: "L'intervallo". Poi Valletta se ne andò alla Fiat e mio padre cadde in errori più grandi di lui. E fallì. Gli diedero il foglio di povertà con il suo nome: Annibale Rama. E lui per fame e vergogna si suicidò. Era il '42». Carol Rama, settantacinque anni, una vita passata nella sua soffitta di via Napione, casa e studio di infinite memorie, dove la Mole, sezionata in verticale e orizzontale, occhieggia dalle finestre, e le tele e i disegni della pittrice si offrono demoni dolenti dalle pareti in ombra. Carol Rama una pittrice irregolare e una vita tirata con i denti. Dopo quel '42. Ma anche prima. Sì, c'era stata un'infanzia fortunata, nel buon mondo torinese, con ottime scuole, corsi d'equitazione, le amicizie giuste, quelle con le figlie delle signore che andavano, a Porta Susa, nella sartorìa della madre. Poi tutto era precipitato fra crolli di Borsa e fallimento dell'industria. La madre era finita ai «Due Pini», una casa di cura per malattie mentali, a metà collina. «Andavo a trovare mia madre in quell'ospedale psichiatrico racconta Carol Rama -, pensavo di incontrare il dolore e invece mi trovai in un mondo di trasgressione, dove le persone si agitavano erotiche e sguaiate. Fu così che senza sapere niente cominciai a disegnare, a dipingere». Più di mezzo secolo di pittura che Carol Rama vede testimoniata con alcuni suoi lavori in «Un'avventura internazionale» al Castello di Rivoli, una piccola e preziosa mostra da Giancarlo Salzano e una grande retrospettiva alla prossima Biennale di Venezia. «Eroica, erotica, esotica», come l'ha definita Lea Vergine, Carol Rama si è difesa dalla paura disegnando. Felice Casorati, per proteggerla, le suggeriva di non dare alle sue figure di grande violenza erotica il nome della clinica dove era ricoverata la madre. «Ma io non conoscevo le regole del gioco», confessa Carol. 0 forse non le voleva accettare e la paura della follia s'allontanava solo stando sulla tela. Ricorda che Ottavia Menzio le diceva: «La follia è in noi». E lei si tranquillizzava con la protezione di Carlo Levi, Italo Cremona, Carlo Mollino, Albino Galvano. «Io trasmettevo a loro ironia e gusto della libertà». Ma i suoi quadri traboccanti di figure falliche, protesi, sono immostrabili e il suo linguaggio iperbolico, boccaccesco, inascoltabile. Carol Rama se ne frega. Esce la notte con Mollino e Boringhieri per ascoltare jazz in birreria, va al night con Gal¬ vano a vedere gli spogliarelli. Non si innamora. «Non potevo dice - innamorarmi che del mio lavoro e solo di cose fantastiche». Con Galvano vanno a Parigi, sono gli Anni Cinquanta, a trovare Colette. «Rimasi incantata di un quadro con tante spugnette nere, sotto vetro, come reliquie. Chiesi a Galvano cosa fossero. Mi disse che erano "strumenti per non rimanere incinta". Che meraviglia! Che donna quella Colette! Io piuttosto che far l'amore con un uomo preferivo passeggiare nella notte e andare randagia per chiese e musei, a vedere gli ex voto della Consolata, le mummie all'Egizio». E' il suo bricolage della realtà, il suo raccogliere oggetti quotidiani, dentiere, pelli di volpi, occhi di ceramica che vedeva da una zia, o gomme usate, in omaggio al padre, che era stato concessionario della Guzzi, che poi trasferisce inquietantemente sulla tela. «Mi dicevano che i miei dise¬ gni ricordavano Balthus, ma io non ci trovavo analogia. Mi facevano vedere i pittori della secessione viennese, ma io mi infastidivo. Ho visto Mundi. Carlo Levi e Edoardo Sanguinati mi han sempre detto: ' Sii come sèi". E come sono? Una incazzata perenne! Una che si è vestita rivoltando gli abiti altrui per metà della vita. Una che non sa entrare in un negozio se non per comprare dei fazzoletti. Sono una che si chiede se riuscirà a farsi una bara, prima di morire. Ma forse è solo colpa mia, ho un rapporto distruttivo con il mondo». Lo sanno i suoi galleristi, da Bertasso a Salzano, lo sapevano Tazzoli e Anselmino. Eppure con quel volto da clown tragico, Carol Rama ha colpito Man Ray e Andy Warhol, che l'hanno fotografata e amato i suoi quadri. E nella soffitta di via Napione Raf Vallone, Ciaffi e Santuccio recitavano con lei Woyzeck, Calvino impacciato leggeva' poesie e parlava della madre e Giorgio Manganelli telefonava la notte «per interferire nei nostri silenzi». Un ricordo di Mila: «Andavamo al cinema insieme. Aveva quella faccia da Spencer Tracy. Una volta mi bacia al buio e con una mano mi strizza un seno. "Sei contenta?". Un male cane, come facevo ad essere contenta? Un'altra volta, vuole un quadro. Mi mette una busta in mano. Penso finalmente ad un assegno. No! Sono sette denti. Gli eran caduti e puzzavano come morti. Li lascio in un bicchiere e vado a un concerto con Berlo. Arriva anche Mila e chiede: "L'hai fatto?". Povero Mila, era un adorabile pazzo. Ma io l'ho aiutato a morire contento. Certo è che se non sei giovane, ricca e figa non sei niente. Altrimenti bisogna essere puttana o Teresa di Calcutta! Ma io sono soltanto una che ha paura e ha manie di persecuzione, che sa che i colleghi non esistono e gli artisti sono senza pietà. O forse sono io incapace di dare amore, è una mutilazione. Come le figure che dipingo, le voglio guastate, sofferte come me». Impietosa con se stessa e gli altri, Carol Rama ha interpretato nei suoi quadri il «malessere», il «disagio», i «sottosuoli» della mente, senza farsi assorbire da gruppi o scuole; ma anche non capita, non voluta. Spesso evitata. «A Rivoli mi sono'sentita sicura. Mi piaceva che i miei quadri fossero lì. Certo ho provato invidia guardando i lavori di Anselmo e Mérz e quelli di Marina Merz. Una maledétta gelosia d'artista. Ma io nella mia vita ho anche fatto quello che volevo fare. Rimpiango solo la povertà che mi ha dato vergogna. Non altro». Una domanda. Non ha mai pensato di andarsene da questa città? Una risposta: «E come? Non avevo nemmeno i soldi per stare qui! Ma qui, almeno, si può morire ancora in casa». Nico Orango

Luoghi citati: Calcutta, Parigi, Rivoli, Salzano, Torino, Venezia