Su Trento le cicatrici del rogo di Giuliano Marchesini

Alla ricerca delle responsabilità dopo l'incendio che ha causato la morte di 5 musulmani Alla ricerca delle responsabilità dopo l'incendio che ha causato la morte di 5 musulmani Su Trento le cicatrici del rogo La città sconvolta scopre la solidarietà LA GUERRA JUGOSLAVA DENTRO CASA TRENTO DAL NOSTRO INVIATO Stanno in cerchio, le donne tengono per mano bambini intimoriti, nel cortiletto dell'ostello della gioventù: un rifugio un po' migliore di quel rustico alla periferia della città mangiato dall'incendio che ha ucciso cinque loro compagni. I musulmani del Kosovo staranno qui per qualche giorno, poi si vedrà. Trento ha sotto gli occhi il dramma di questa gente, venuta via da una terra tormentata, passata attraverso le sofferenze della ex Jugoslavia, finita alla ventura nel nostro Paese. Città tranquilla, Trento, dentro la corona delle montagne. Il passeggio che scorre lento per le vie del centro, l'intreccio di chiacchiere ai tavolini del bar sotto il porticato di fronte al Duomo. Nelle case, la televisione che manda notizie di quel che è accaduto a quel centinaio di sbandati ammassati in un casolare cui qualcuno deve aver dato fuoco. E, ogni giorno, il resoconto di tragedie che si ripetono non molto lontano dal confine di Trieste. Viste e sentite raccontare in tv, quelle storie crudeli sembravano comunque ancora distanti. Adesso non può più essere così, dopo che in questa città quieta s'è scoperta d'improvviso una comunità di profughi che conta cinque vittime. Sugli scalini che circondano la fontana, in piazza, i ragazzi prendono il sole di questa giornata calda. Poche centinaia di metri da qui, quei fuggiaschi radunati nell'ostello della gioventù, tra il dolore e lo spavento. Un uomo chiama il cronista: «Senti, scrivi quello che ti dico». Si chiama Hazim Baira, ha ventisei anni ma ne dimostra parec- chi di più: il volto segnato, la stanchezza nello sguardo. «Ho perduto i miei due nipoti, in quell'incendio». Racconta di sé, dei suoi parenti: «Noi siamo della ex Jugoslavia, scappati dalla guerra. Io vengo da Sarajevo, con mia moglie e tre figli. Siamo venuti da voi per avere un aiuto, ma abbiamo perso cinque fratelli. Noi che siamo arrivati in Italia per salvare i nostri bambini, la nostra vita, non siamo venuti per fare la guerra a nessuno: soltanto per fuggire». In Hazim Baira riaffiora la paura. «Ci hanno detto che vogliono rimandarci indietro. Senti, allora è meglio che ci mettano di fronte a un mitra e ci sparino, così la facciamo finita». Implora, quest'uomo: «Che ci lascino restare in Italia, ci sistemino da qualche parte. Per quello che potete fare, vi ringraziamo. Vorremmo anche dei posti di lavoro, per non andare in giro a chiedere l'elemosina, che è una vergogna. Poi, se laggiù finisce la guerra, torniamo alle nostre case». Un appello, una speranza. I trentini, adesso, hanno di fronte questa gente, che chiede, che aspetta, che non sa. Una comunità messa allo scoperto da un incendio tragico. Qualcuno, ancora, si domanda chi siano questi musulmani allo sbando. Nella Trento che vive racchiusa, resiste ostinata qualche diffidenza. E c'è chi ci mette una punta di razzismo: «Non date loro ascolto, questi sono dei nomadi, e vanno anche in giro a rubacchiare qua e là. Dispiace, certo, per quella disgrazia, ma per il resto lasciamo perdere». Una «disgrazia» che, secondo il magi¬ strato, è con tutta probabilità un atto doloso. Può anche darsi che si sia trattato dell'esplodere di rivalità all'interno di questo gruppo in cui in qualche modo si cercava una gerarchia. Restano, tra il cortile e gli stanzoni dell'ostello, queste decine di uomini, donne e bambini fuggiti da uh altro dramma. Nicola Salvati, responsabile della Protezione civile della Provincia, dice: «Il problema non è soltanto nostro, ma nazionale. Gente come questa vaga per tutta Italia, senza permessi di alcun genere. Questo è un buco nero del sistema. Noi non sappiamo chi sono, né come trattarli: è l'amara realtà. Quel che è accaduto qui ha messo in risalto una situazione che durava da anni. Adesso ci si domanda chi debba farsi carico di questi pro- fughi». Sedute sul marciapiede, alla fermata dell'autobus, ci sono due ragazze, le sacche gonfie di libri tra le ginocchia. Mara Brazzali, allieva infermiera, parla di quel ragazzo musulmano ricoverato in ospedale, per le ustioni. «L'hanno portato nel reparto dove sto facendo pratica. Sono ancora sconvolta. Sa, ho pensato tante volte ai patimenti di quella gente, alla miseria in cui vivono in tanti. Ma perché si mandano gli aiuti là, mentre qui loro non vengono accettati? E' ora che si prenda atto di queste sofferenze». La sua compagna, Francesca Goss, si alza in piedi e ha un gesto di rabbia: «Si, rabbia per il comportamento di certe persone nei confronti di questi profughi, degli immigrati. Io le ho viste le scritte sui muri: qua c'è chi non li vuole, gli immigrati. Secondo me ce n'è ancora tanto di razzismo, da queste parti. Ci si deve ricordare che i trentini che sono emigrati in altri Paesi sono stati accolti dappertutto. Adesso che arrivano da noi questi del Kosovo, della ex Jugoslavia, bisognosi di tutto, cosa facciamo? Chiudiamo loro la porta in faccia?». Eugenio Braghieri, commerciante, ha l'impressione che il dramma che s'allunga fin qui da altri territori «non sia così sentito dalla nostra popolazione». «Dicono: quelli si ammazzano tra di loro. Io penso che ci sia ancora tanto bisogno di solidarietà. Invece qui, anche se capita una tragedia sotto gli occhi, come quella del Maso Visintainer, si tende a considerarla una vicenda che appartiene agli altri. C'è un distacco, insomma. Amaro dirlo, ma mi sembra proprio che sia così». Due coniugi traversano la piazza inondata di sole, sono appena usciti di casa per la solita passeggiata. Ma oggi non è una giornata come le altre. Loro l'angoscia ce l'hanno. Lei, Rina Zeni, si mette una mano nei capelli: «Quel rogo, in quel posto dove stavano ammassati i musulmani. Una cosa così terribile non si era mai sen¬ tita, a Trento. Cose grosse da accettare, da raccontare. Quando lo hai così vicino, un dramma come questo ti fa capire quante siano le sofferenze di quei poveretti». E il marito, Fulvio: «Proprio dei poveri. Ma io non credo che la città li consideri lontani, e non si renda conto dei loro problemi, dei loro bisogni». «Ma si può certamente fare di più», incalza Franco Caldonazzi, tabaccaio. «Il fatto è - dice Adolfo De Bertolini, avvocato - che qui la collettività è piuttosto riservata: non manifesta molto le sue emozioni. Questo non è sintomatico per concludere che non esista una vera partecipazione. Credo comunque che debba risorgere un principio della solidarietà che ispiri tutti i cittadini d'Europa». Il sindaco, Lorenzo Dellai, dichiara che «nessuno può chiamarsi fuori dalle responsabilità». All'ostello della gioventù, i profughi del Kosovo sembrano aprirsi un po' di più alla speranza. Dovrebbero essere in corso procedure per concedere loro un permesso di soggiorno per motivi umanitari. «Più umanitari di così», dice una donna che tiene un bambino tra le braccia. Giuliano Marchesini Un superstite: «Fuggiamo solo dall'inferno» Il sindaco: «Nessuno può chiamarsi fuori» ••: :v...: ::... Trento sconvolta dopo il tragico rogo (qui a fianco) dove hanno trovato la morte 5 jugoslavi

Persone citate: Adolfo De Bertolini, Baira, Eugenio Braghieri, Francesca Goss, Franco Caldonazzi, Hazim, Hazim Baira, Lorenzo Dellai, Nicola Salvati, Rina Zeni