Sta al Castello sarà arte di regime?

Il pittore lombardo accusa: le esposizioni raccolgono sempre i soliti noti MOSTRE A RIVOLI, INTERVIENE BAJ Il pittore lombardo accusa: le esposizioni raccolgono sempre i soliti noti Sta al Castello, sarà arte di regime? «Non siamo soli, all'estero la situazione è analoga» ISITAI una volta il Castello di Rivoli nel 1985. In una lunga infilata di stanze bianche e ben pulite vidi le solite cose dei pittori del regime museale standard. Uno ti fa il quadro nel verso giusto e poi l'appende capovolto; l'altro ti scrive al neon banalità quali «pittore in Africa»; un altro ancora cosparge il suolo di pietre a mo' di tumulo circolare druidico. Altri tirano fregacci sulle tele credendosi Pollock, oppure fanno punti rotondi o quadri; o infine scoprono la piramide. Ma sotto quelle nobili volte, tra quegli stucchi affascinanti, tra architravi, plafoni e infissi di aulica fattura, chi si distingueva per l'abbrutimento e lo sconcio dei luoghi era un tale, detto «El Greco de' Roma», che vi aveva piazzato una ventina di bombole a gas con relativi cannelli vomitanti puzzolenti fumi e fiamme ossidriche. Quasi non bastassero il benzopirene e le altre schifezze che si respirano per strada, ecco che anche l'arte ufficiale si fa portatrice e esaltatrice di fattori cancerogeni e degenerativi. Mi ci sono voluti sette anni per riprendermi; poi nell'ottobre scorso ho rivisitato Rivoli. C'era gran festa quella sera, c'era la mostra del post-umano, cioè del superamento umano dell'arte. Anche in questa occasione l'orrore fu grande. Infatti quelle stesse nobili strutture ospitavano ora un concetto «nuovo»: quello di «merdificazione» dell'arte. Chi potrà mai dimenticare la scultorea donna nuda di Kiki Smith che cammina a carponi al centro di una delle più belle sale, mentre dai glutei le esce un ben compatto e rotondo escremento (ovvero stronzo) lungo ben cinque metri? Qui il post-umano consiste nell'ottenere deiezioni lineari di quella lunghezza, e il fatto non è privo di conseguenze! Infatti si possono ingenerare - nei bambini e nei soggetti psichicamente a rischio - degli incubi formali, dei sensi di colpa per incapacità a superare quel morboso attacca- mento alle proprie feci, che Freud ha mirabilmente analizzato. La visione può ingenerare rimozioni nel profondo, ove si perde ogni senso di misura e di lunghezza. Insomma, per ragioni di salute pubblica e di igiene mentale proibirei la visione del Castello di Rivoli quanto meno ai bambini e agli anziani, a questi ultimi per diversi e opposti motivi. Quelli di Rivoli sono gli artisti ufficiali del regime: cioè sono sempre quelli, sempre con quelle opere. Vietato inventare, vietato significare, cioè provocare riflessioni sull'essere. Non solo qui da noi trionfa questo tipo di ufficialità. Per esempio, la Francia conobbe già il fenomeno degenerativo del «pompierismo» nel Seco¬ lo XIX: e ci vollero gli impressionisti, con quel che ne seguì, per far piazza pulita. Ma nella stessa Francia i pittori ufficiali rispuntano ancora: oggi sono i Buren, che dipinge solo strisce come quelle delle sedie a sdraio, i Raynaud che fa solo piastrelle bianche da cesso, i Boltanski coi cimiterini e i Lavier col nulla. Nella stessa Francia la polemica è ora violentissima. Le Monde vi ha dedicato pagine e pagine; una notissima rivista culturale. Esprit, ha pubblicato tre numeri contro i soprusi e gli arbitri di certa arte museale moderna. Anche La revue des deux mondes, ì'Evénement du Jeudì e Telerama hanno denunciato in una quantità di articoli le distruzioni e le truffe dell'arte contemporanea. Notissimi saggisti e filosofi sparano a zero: Marc Le Bot it'art n'a aucun valeur), Jean Claire (Le monde de l'art, la fin d'un monde), Alain Bosquc* LPeinture moderne cantre communication), J.-P. Domec (Warhol, ou l'apogée de la Bètise moderne), Jean Molino (L'art aujourdliui? c'est n'importe quoi): per non citare che alcuni saggi. E' un coro di denunce nel quale spiccano anche le voci di Roger Caillois e di Claude Lévi-Strauss. Enrico Baj Enrico Baj: «Sono andato a Rivoli, l'orrore è stato grande. Mi ci sono voluti sette anni per riprendermi»