La giustizia inchioda Muccioli di Alfio Russo

La giustizia inchioda Muccioli Delitto a San Patrignano: sapeva e ha consentito l'uso dell'auto La giustizia inchioda Muccioli «Avviso di garanzia» perfavoreggiamento RIMINI DAL NOSTRO INVIATO Apre la porta, esce sotto al sole con un sorriso tirato, si ferma, abbraccia un ragazzo, viene avanti: «Sì, ho appena ricevuto l'avviso di garanzia». Ha gli occhi spalancati Vincenzo Muccioli davanti a una mezza dozzina di telecamere e una lentezza calcolata. «Lunedì andrò dal magistrato. Ah, dimenticavo, mi accusano di favoreggiamento». Muccioli, il grande comunicatore, non si smentisce: ostenta sicurezza, parla svagato. Ma questa volta nessuna leggerezza è possibile ora che l'omicidio «è stato chiarito nella sua dinamica». Ora che le sevizie «nel settore macelleriaporcilaia», le botte come metodo di disciplina, le scosse elettriche come mezzo di deterrenza e punizione sono state confermate dalle indagini. E' dentro questo giallo sanguinoso e terribile, dentro questo scenario di violenza praticata e coperta, che Vincenzo Muccioli da oggi è (ufficialmente) «persona sottoposta a indagine». E l'accusa è una catena che porta lontano: perché se ha depistato le indagini, sapeva che Roberto Maranzano, 36 anni, era stato ucciso a calci e pugni dentro la comunità quella mattina del 5 maggio 1989. E sapeva da subito, come hanno ammesso 5 degli 8 imputati, non dopo tre mesi come Muccioli va dicendo da giorni. Sapeva non per una confidenza ottenuta da uno dei ragazzi coinvolti, in cambio del segreto, impegno «che ho dovuto rispettare per non tradire chi mi ha dato fiducia». Sapeva. Ha favorito il depistaggio. Ha «eluso le indagini dei carabinieri». Ora, davanti al procuratore Franco Battaglino, dovrà sciogliere almeno i quattro nodi che gli vengono contestati. Primo: avere «consentito l'uso dell'auto» della comunità, la Golf bianca, utilizzata per il trasporto del corpo di Maranzano fino alla discarica di Terzigno (Napoli), 600 chilometri più a Sud. Secondo: avere allontanato «alcuni ragazzi» del reparto macelleria, mandandoli in gita a Botticella, proprio il 19 maggio 1989, giorno in cui i carabinieri di Terzigno erano arrivati a San Patrignano per indagare su quell'ex tossicodipendente reso irriconoscibile dalle botte, identificato solo grazie dalle impronte digitali. Li ha allontanati perché temeva che davanti ai carabinieri non avrebbero retto alle domande? Terzo, aver condotto i carabinieri non nel dormitorio di Maranzano, ma «in un'altra camerata». Perché? Perché i suoi veri compagni di stanza, testi moni delle botte ricevute da Maranzano la notte prima di essere ucciso, erano gli stessi spediti in gita da Muccioli. La loro assenza avrebbe (com'è ovvio) generato altri sospetti, Quarto, «non aver riconosciuto la coperta» che tra gli sterpi della discarica avvolgeva il corpo di Maranzano. Oggi le indagini hanno accertato che quella coperta era «abitualmente in dotazione a San Patrignano». Ma Muccioli, allora, lo negò. Sì, quello che si è ipotizzato fin dai primi momenti di quei sta brutta storia di botte e omertà, «Muccioli non poteva non sapere», comincia ad avere riscontri ed è un filo che i magistrati voglio seguire fino in fondo. Troppi dubbi, troppi misteri, troppe incongruenze, nel giallo di San Patrignano. L'avviso di garanzia a Vincenzo Muccioli (ormai) non è un colpo di scena anche se finirà per suscitare clamori e polemiche. Spaventa di più la dinamica del pestaggio che l'altro ieri ha convinto i magistrati ad accusare Alfio Russo, detenuto a Pesaro, ex responsabile del reparto macelleria, di «omicidio volontario». Botte la sera del 4 maggio. Botte la mattina del 5 e questa volta senza fermarsi, senza ascoltare i lamenti di quel ragazzo palermitano già pieno di lividi e fratture, ma continuando a tenerlo per il collo fino a spezzargli il respiro. Spaventano le molte (drammatiche) testimonianze raccolte dai giudici sui metodi con cui, in quel reparto (solo in quel reparto?), veniva mantenuta una disciplina inflessibile. «Torture» le hanno chiamate alcuni ragazzi. E una parola diversa non la si può trovare. Chi lavorava poco, chi arrivava in ritardo, chi doveva essere punito, veniva colpito dalle frustate elettriche degli «stimolatori» con cui si obbligano i maiali irrigiditi dal terrore, ad avviarsi al macello. Giuseppe Lupo, uno dei tre imputati che ancora restano in carcere, ha ammesso di essere stato seviziato con l'elettricità. Di essere stato costretto «a rimanere per 14 ore, a piedi nudi, sulle piastrelle ghiacciate della porcilaia» per scontare una punizione. E altri ragazzi, altri testimoni, hanno confer- mato le botte, il terrore psicologico con cui Alfio Russo teneva soggiogato chi lavorava al macello di San Patrignano. Sì, sul corpo di Roberto Maranzano - costole, vertebre e mandibole rotte - sono state trovate le bruciature generate dalle scosse elettriche. «Quel ragazzo è stato prima torturato e poi ammazzato - confida uno degli investigatori -. Le fotografie che abbiamo sono terribili». Sono bruciature che oggi scatenano l'incendio. Come è stato possbile che dentro San Patrignano, tra i 2 mila ragazzi, all'insaputa delle famiglie, all'insaputa dei 274 educatori e delle centinaia di visitatori, sia I nato questo sottomondo di vio- lenza e soprusi sistematici? E' un incendio. E il procuratore Battaglino è un uomo fatto d'acqua: va lento, scava. Ammette: «Le notizie che avete riportato non sono fantasia». Ma non vuole aggiungere altro: «L'inchiesta riguarda l'omicidio di Maranzano, le altre violenze, dopo essere state vagliate, finiranno in differenti fascicoli». Su Maranzano, dunque. A metà di questa giornata cruciale, Battaglino parla chiaro, senza interruzioni: «Ho gli elementi per completare le indagini - dice -. Io e la mia équipe abbiamo ricostruito una serie di circostanze che ritengo di dover contestare a Muccioli pausa -. Mi rendo conto dell'effetto, dirompente che questo avviso di garanzia avrà sull'opinione pubblica e tra gli ospiti della comunità. Ma gli elementi che ho acquisito mi fanno pensare che ci sia stato un favoreggiamento» . Ore 13,55. La Tipo metallizzata della squadra mobile di Rimini scala la collina di Coriano. La sbarra di San Patrignano si alza e l'ispettore Salerno, con la busta gialla dell'avviso di garanzia, sparisce dentro gli uffici della comunità, dove Muccioli ha riunito avvocati e stato maggiore. Venticinque minuti di attesa. Cancelli chiusi per.i giornalisti. Nervosismo. I tossici che aspettano di essere accolti in comunità e stanno qui magari due o tre giorni a presidiare l'entrata, dormendo in macchina, in tenda, per incontrare Vincenzo, guardano la scena da lontano. Uno solo, Moreno, 28 anni, milanese, fa: «State rovinando tutto. Lui è l'unico che ci tira fuori dalla roba». Escono i poliziotti e filano via. Esce Muccioli e si ferma: fotografi, taccuini, telecamere. «Per me questo avviso è una liberazione - prova a dire -. Ora potrò andare dai magistrati e chiarire la mia posizione». Se lo aspettava? «Sono giorni che lo aspettate voi giornalisti». Ha paura? «No, non temo nulla». Cosa dirà ai magistrati? «La verità. La stessa che ho detto in questi giorni, quando mi sono affrancato dal peso di quel segreto. Non ho nulla da aggiungere. Non ho nuove versioni». Sorride, sbatte gli occhi. Saluta: «Devo occuparmi dei miei ragazzi». Quale linea di difesa adotterà Muccioli? Di nuovo, come all'epoca del processo per le catene, da cui uscì condannato in primo grado, ma assolto in appello e in Cassazione, trasformerà la sua difesa in battaglia politica, in contesa «culturale, etica, sociale» tra «proibizionismo» e «permissivismo»? Lo si capirà lunedì mattina, quando tornerà a sedersi davanti a Battaglino, quarto piano del tribunale di Rimini, con i suoi due difensori Veniero Accreman e Vittorio Virga. Resta da sciogliere un interrogativo cruciale. Se è vera l'ipotesi dei magistrati, Muccioli ha coperto un omicidio. Perché? Solo per onorare un segreto? Ma è possibile compiere un gesto così grave, così rischioso (liberarsi di un cadavere, trasportarlo a 600 chilometri), per un motivo così piccolo? C'è un'altra ipotesi. Il delitto è avvenuto il 5 maggio 1989. La Corte di Cassazione conferma l'assoluzione nel processo delle catene («no, a San Patrignano non si sono compiute violenze») il 29 marzo del 1990. Cosa sarebbe accaduto se dieci mesi prima fosse venuta fuori, così come sta emergendo oggi, la storia di Maranzano? Un pestaggio durato fino alla morte. Una violenza applicata con sistematicità. Le scosse elettriche, le punizioni. Il terrore di chi lavorava in quel settore punitivo, mangiava separato dagli altri ragazzi e «non doveva alzare gli occhi dal piatto». La Cassazione avrebbe confermato il verdetto di assoluzione? Muccioli, a questa domanda, ha risposto: «Non ho mai messo in relazione le due cose. Non mi sono mai posto questo problema». Invece il problema esiste eccome. L'interrogativo è plausibile. La risposta (quasi) scontata. Pino Corrias «Non temo nulla anzi è una liberazione Ora potrò chiarire la mia posizione» H Muccioli circondato dai ragazzi di San Patrignano e nel refettorio della comunità Alfio Russo al momento dell'arresto

Luoghi citati: Coriano, Napoli, Pesaro, Rimini, Salerno, Terzigno