Umberto II parlandone con Giulio

Umberto II, parlandone con Giulio Andreotti e l'ultimo Sovrano: monarchia e prima Repubblica, stessa sorte? Umberto II, parlandone con Giulio «Quando la de chiese aiuto a Sua Maestà» MEMORIA MORIVA IL RE DI MAGGIO 1 ROMA I L decimo anniversario della ■ morte del Re di Maggio, Umberto II di Savoia, spentosi a Ginevra il 18 di marzo del 1983, coincide con l'agonia della prima Repubblica? Giulio Andreotti - è a lui che rivolgo la domanda -, ha una smorfia che potrebbe benissimo significare: «Non ci sto a questo giuoco». Il più antico degli uomini politici italiani è dell'opinione che una «regolatine» ce la dovremmo dare un po' tutti, epperò una cosa è prendere atto della realtà e «comportarsi in conseguenza», altra cosa stracciarsi le vesti, far professione di pessimismo, incartarsi nel cupio dissolvi. Insomma, l'Italia non è proprio da buttare: lo dicono, del resto, gli stessi gnomi di Wall Street, e altresì gli inflessibili analisti di Zurigo. Questa che mi ha concesso non è una intervista sul «caso italiano» bensì una sorta di amarcord del primo dopoguerra quando, per dirla con lo storico Ennio di Nolfo, gli italiani convivevano con la paura ma anche con la speranza. (Un po' come oggi? Andreotti non risponde). Non pochi uomini politici italiani, oramai prossimi alla pensione, han vissuto tutte le battaglie politiche della nostra epoca, «sol divorati dall'ansia di conoscerne in anticipo il vincitore», come disse bene Longanesi a proposito di Vittorio Emanuele Orlando; Andreotti, invece, non sembra aver avuto mai dubbi su chi avrebbe vinto la «tenzone storica» fra Monarchia e Repubblica nel 1946. De Gasperi per converso appariva tormentato dal dubbio, «sapeva che quella del referendum sarebbe stata una battaglia dura e incerta sino alla fine». Questo perché il 19 di maggio del 1946, inopinatamente, Vittorio Emanuele ni abdicò in favore del figlio. A meno di un mese dal referendum il gesto del vecchio sovrano ebbe l'effetto di un pugno sotto la cintola dei repubblicani, di una sorsata di ossigeno pei fedeli d'Umberto. Votare Monarchia con «pepetto» protagonista della fuga di Pescara, complice del fascismo non sarebbe stato agevole anche per i monarchici più convinti. L'avvento di Umberto sul trono, ancorché tarlato, dei Savoia cambiava i dati della grande partita: il nuovo sovrano era «privo di passato e per tanto immune da colpe sabaude». Finalmente liberi del fantasma piccolo ma pesante di Vittorio Emanuele, i monarchici si lanciarono in una campagna elettorale all'americana, spregiudicata, abile, tutta incentrata sul personaggio-Umberto: bello, fattuale, onesto, «senza peccato». Una volta diventato re, Umberto sembrò trasformarsi: era caduta la sudditanza psicologica che lo affliggeva nei confronti del padre. Il quale, a mo' di congedo, come scrive Silvio Bertoldi, gli disse con cattiveria: «Va' e divertiti tu, adesso». Umberto aveva 42 anni e una grande fame di libertà. Aveva consiglieri saggi e vecchi ma anche, diremo oggi, uomini-immagine del calibro del giovane Enzo Selvaggi e di Luigi Barzini Junior. Quest'ultimo, lui, il grande giornalista, convinse Umberto a ingaggiare americani specialisti in pubbliche relazioni e costoro consigliarono al re di viaggiare l'Italia «per sostenere la propria candidatura soltanto con la sua presenza». Avrebbe funzionato, dissero. Dapprima scettico, alla fine di quell'unico mese di regno passato a tessere l'Italia, Umberto finì col convincersi che «la partita si giuocava alla pari». Era quello che temeva De Gasperi che, forse, in cuor suo era monarchico ma sapeva che se avesse vinto Umberto le sinistre avrebbero scatenato «la rivoluzione», come minacciava Mauro Scoccimarro. E' vero, domando ad Andreotti, che Umberto di Savoia distribuì nel suo unico mese di regno, e di campagna elettorale, qualcosa come ventisettemila onorificenze? Lo scrisse l'Unità, puntualizza Andreotti. Il giornale del pei scrisse anche che nella grande confusione vennero nominati cavalieri sbianco due bambini di nove e di dieci anni. Ed è vero che lo stesso Andreotti si vide appioppare la commenda della Corona d'Italia? E' vero ma pochi sanno che l'insignito ringraziò con una letterina ch'era un garbato fin de non rece- voir. La vittoria della Repubblica fu limpida ovvero ci furono brogli come subito sostennero i monarchici, ricorrendo persino in Cassazione? Fu limpida, afferma Andreotti e spiega che erano affluiti al Viminale, con grande costernazione di Romita, ministro dell'Interno («un gentiluomo»), prima i voti della monarchia «provenienti addirittura dal Nord» e solo all'ultimo momento quelli che sancirono il vantaggio della Repubblica. Allora lavoravo al Tempo di Renato Angiolillo che aveva assunto come vicedirettore Luigi Barzini junior. Il caro «Gtòò» era monarchico in odio ai comunisti, soprattutto era amico di Umberto. Ugo D'Andrea, e Mario Missiroli, a quel tempo direttore del Messaggero, convinsero Angiolillo a schierarsi con la monarchia. (Ma Renato non accettò il titolo di conte offertogli dal re). Ricordo un Missiroli euforico strofinarsi le mani, sorridente, luciferino: «Ce l'abbiamo fatta, è andata, l'avevamo previsto». Era appunto la notte del 4 di giugno. Verso le 3 arrivò in redazione Barzini e Angiolillo gli chiese come l'avesse presa il re. «Si comporta come se tutto ciò non lo riguardasse. Grande stile». Sennonché all'alba del 5 di giugno, quando i giornali erano già in edicola, la situazione venne ribaltata dall'afflusso incalzante di centinaia di migliaia di voti repubblicani. Quando fu chiaro che aveva vinto, sia pure di una incollatura, la Repubblica, De Gasperi telefonò al ministro della Reale Casa, Falcone Lucifero. Andreotti sarebbe diventato sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel 1947 (a ventisette anni) ma De Gasperi aveva preso in simpatia quel giovanotto terribilmente magro che lavorava al Popolo, e se lo portava appresso come assistente personale per la stampa, diremo. Erano le 10,30 del 5 di giugno quando De Gasperi varcò, in compagnia di Andreotti, il portone del Quirinale. Il re lo ricevette con l'abituale distacco cortese: «Sapeva già cosa De Gasperi veniva a dirgli». Mordicchiandosi le labbra sottili per fermare la tensione, e l'emozione, De Gasperi cavò dalla sua nera cartella sformata alcuni fogli e scandì: «Maestà, lo spoglio ha portato alla constatazione di una considerevole maggioranza a favore della Repubblica. (Pausa). Non le nascondo che il primo a esserne dolorosamente sorpreso sono io». Da quel signore che era, ricorda Andreotti, Umberto non volle neanche vedere i fogli fatali che De Gasperi gli porgeva. Disse soltanto, Umberto, che avrebbe atteso la proclamazione ufficiale a Roma. Nel frattempo si sarebbe preparato il trapasso dei poteri, senza scosse, e la sua partenza. Un proclama al Paese avrebbe sciolto dal giuramento alla Corona quanti lo avevano prestato; il re avrebbe esortato gli italiani alla concordia, alla pace, alla ricostruzione. E per cominciare, Umberto annunciò al presidente del Consiglio la partenza, quel giorno stesso, della regina e dei principini per Napoli. Un testimone autorevole, Giovanni Artieri, giornalista e storico, dice che «nella misura conferitagli dalla sua natura, De Gasperi si commosse, e accomiatandosi dal re si inchinò profondamente. Al generale Infante e all'ammiraglio Garofalo che l'attende¬ vano in anticamera, disse con accento sincero: «E' un gran brav'uomo». Andreotti conferma. Ma come mai e perché Umberto, il 7 di giugno, cambiò bruscamente atteggiamento? Perché, prova a spiegare Andreotti, lo aveva galvanizzato il ricorso in Cassazione avanzato da Enzo Selvaggi. «Forse, in cuor suo, si illudeva che la situazione sarebbe stata ribaltata? Non lo sapremo mai». Furono giorni di estrema tensione, «l'incubo della guerra civile tormentava un po' tutti noi, De Gasperi ostentava calma e fiducia ma confessava di avere il cuore stretto. "E' in giuoco l'avvenire d'Italia, dei nostri figli", diceva». Umberto s'era fatto ospitare in casa dell'amico ingegner Corrado Lignana ma andava a cena da Barzini, allora sposo di Giannalisa Feltrinelli, la madre del tragico Giangi. («Togliatti, invece, dormiva in via Gaeta numero 4. All'ambasciata sovietica»). I suoi consiglieri lo cercavano affannosamente. Il re era sparito. Corsero persino voci ch'egli si fosse recato a Napoli per prendere il comando di reparti a lui fedeli. In pieno clima da guerra civile, col governo riunito in seduta permanente, con le piazze sconvolte da moti mortali, giunse, infine, la mattina del 13 di giugno, alle 7, una telefonata di Umberto a Falcone Lucifero. Il re aveva deciso di partire per il Portogallo. «Non voglio un trono macchiato di sangue, non voglio provocare altri lutti», disse e fu irremovibile. Avrebbe lasciato il Quirinale ad ore 15 di quello stesso 13 di giugno. Quel giorno il cielo era fosco, Roma era oppressa dalla callaccia, tuoni annunciavano un temporale, forse liberatorio. Era mezzodì quando feci una capatina in redazione. Non c'era nessuno. Stavo per uscire quando sentii trillare il telefono degli stenografi. Corsi a rispondere. Era Cibò. «Prendi una penna mi disse secco Barzini - e scrivi. E' il proclama del re che va in esilio. L'Ansa lo darà quando sua maestà sarà in volo per Lisbona. Portalo subito ad Angiolillo». Scrissi, via via sempre più turbato, sotto dettatura. Era un addio polemico, duro, pericoloso. Allorché Angiolillo lo lesse, sbiancò. C'era una frase ch'egli giudicava, non a torto, terribile. «Improvvisamente in spregio alle leggi e al potere indipendente della magistratura, il governo ha compiuto un colpo di Stato, assumendo, con atto unilaterale e arbitrario, poteri che non gli spettano, e mi ha posto nell'alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire violenza». Sennonché nel testo che l'Ansa diramò a mezzanotte invece che «colpo di Stato», si leggeva «gesto rivoluzionario». Andreotti racconta che fu Umberto a scrivere di suo pugno il messaggio che venne limato dai suoi consiglieri, in primo luogo da Gibò. E fu sempre il re, continua Andreotti, a sostituire, all'ultimo momento, l'espressione «colpo di Stato» con quella più sfumata di «gesto rivoluzionario». Ancora una volta De Gasperi era riuscito a convincere Umberto II «ad operare per il bene della patria». «Io, mi dice Andreotti, non vidi la prima stesura ma ne ebbi contezza. Fui però depositario del secondo testo, quello consegnato alla storia. Me lo affidò l'ammiraglio Garofalo mentre il re stava partendo perché lo portassi a De Gasperi. Debbo dire, ancora una volta, adesso, a dieci anni dalla morte di Umberto, ch'egli fu estremamente responsabile. Sempre. Se avesse puntato i piedi avremmo, quasi certamente, avuto la guerra civile e l'Italia non sarebbe, forse, mai più risorta dalle ceneri della guerra». Andreotti si astrae un po', fa vorticare i pollici, le mani in grembo. Poi, quasi riscuotendo- si, mi parla del «grande servigio» che Umberto di Savoia, già in esilio, rese al suo Paese. «Non mi pare di averlo raccontato prima. Insomma, in un momento molto delicato - De Gasperi era già morto -, un progetto politico che avrebbe saldato il governo a vasti strati popolari (quando la de preparava il cosiddetto centrosinistra) veniva cupamente avversato dalla destra, dallo schieramento di destra dove i monarchici avevano un peso non irrilevante. Fui incaricato di prospettare a Umberto di Savoia l'opportunità di un suo intervento presso i leader monarchici affinché desistessero dalla loro intransigenza e ciò per il bene del Paese. Grazie al comune amico Paolo Matarazzo venni ricevuto a Parigi, proprio in casa Matarazzo, da Umberto di Savoia. La visita era segreta, Matarazzo si raccomandò di parlare in francese affinché la servitù non si rendesse conto di chi io fossi, un ministro della Repubblica. Il re ascoltò con attenzione e promise che avrebbe fatto del suo meglio "per il bene dell'amata Italia", come mi disse». Ma lei, senatore, come si rivolgeva a Umberto di Savoia? «Lo sa che non me lo ricordo... Verosimilmente lo chiamavo Maestà... E perché no?». Ricorda qualcosa di particolare in quell'incontro? Silenzio, altro vorticar di pollici, poi: «Una grande malinconia. Un senso profondo di malinconia. Quel signore, forse già malato, emanava da tutta la sua compita persona un senso tragico di malinconia. Ecco, era come se vivesse distrattamente. Mi parlò a lungo di De Gasperi, con rispetto. "Fu sempre paterno con me. Severo, e con durezza, con mio padre, paterno nei miei riguardi". Così mi disse Umberto di Savoia. Di lì a pochi anni sarebbe morto, con coraggio, di un male terribile. Solo». Morì, Umberto II, Re di Maggio, ad ore 15,35 del 18 di marzo del 1983, nulla camera numero 809 del Kantonhospital di Ginevra. Aveva settantanove anni, pesava cinquanta chili. Ad aiutarlo a morire fu una anonima infermiera. Gli tenne la mano e lui morì, in silenzio, fissando quel volto sconosciuto. «La storia è quasi sempre crudele, specie coi deboli», mi pare - ma non lo giurerei - che sussurri adesso Andreotti. Igor Man «La crisi dell'Italia di oggi? Tutti dovremmo darci una regolatimi, ma senza stracciarci le vesti» «Incontrai il re in segreto Lui convinse i monarchici a non boicottare il centro-sinistra di Moro» A fianco, Umberto II mentre lascia l'Italia In alto, l'annuncio della vittoria della Repubblica Sopra, Il ministro della Real Casa Falcone Lucifero Mogombe monto hé a i uoato sadel di ici na rerato: za A fianco, Umberto II mentre lascia l'Italia In alto, l'annuncio della vittoria della Repubblica Sopra, Il ministro della Real Casa Falcone Lucifero A sinistra: Giulio Andreotti e Alcide De Gasperi Sotto: l'allora ministro degli Interni Giuseppe Romita A sinistra la famiglia reale a destra il re Vittorio Emanuele III