«L'arte al castello di Rivoli un sapore acido da obitorio»

«L'arte al castello di Rivoli un sapore acido da obitorio» «L'arte al castello di Rivoli un sapore acido da obitorio» r UGO NESPOLO: UNA PROVOCAZIONE I è al tempo in cui lo stivale aggriccia, abbrividisce ed una gelida bufera soffiando scoperchia le baracche del potere, spoglia l'arroganza, la volgarità, ne mostra l'enorme portata. Il Sistema dell'Arte se ne impippa beato anzi rilancia nel riproporre la sua facciona di bronzo, la sua saccenza autoritaria, la vocazione censoria ed omissoria. Ernesto Galli della Loggia ha con veemenza posto in luce come per i partiti politici la cultura sia «cosa nostra». Vedere a mo' d'esempio Bonito Oliva e la sua designazione super lottizzata alla Biennale di Venezia. Su fronti diversi la gestione della cultura non perde occasione di mostrare i suoi denti aguzzi, la sua urgenza di «fare la storia» di presto museificare, di celebrare, ufficializzare. La mostra «Un'avventura internazionale / Torino e le Arti 1950-1970» ne è un bell'esempio. Il Castello di Rivoli, si sa, ha la sua missione e si adopra con ogni mezzo e grande costanza a questo irrinunciabile compito. Quest'istituzione il cui dotto presidente Marco Rivetti non esita a definire «museo imprenditivo» si prodiga a render perenni i già molto celebrati fasti dell'arte dell'ufficialità e del regime. Questa mostra torinese del «nuovo ventennio» ha il sapore acido dell'obitorio, il gusto amaro della pseudo-storia, dell'architettura cartacea confezionata a tavolino. La tesi del bel tandem Celant-GianneUi è a tutto tondo e sta a dimostrare che la cultura espressa in maniera disorganica dalla città in quegli anni, ben mondata, sterilizzata non è del tutto andata sprecata se è supporto funzionale a fenomeni di portata quali ad esempio l'arte po- I funz I tata vera ed altre povere affinità. Si costruisce per omissioni con l'impensabile supporto di Paolo Fossati che - se ben ricordo-in quegli anni adorava la divisa di capo stazione - il cappello rosso era in perfetta sintonia con il severo giornale su cui scriveva - per far «perdere il treno» al povero Jim Dine in corsa affannata da New York a Torino chez Sperone via Sonnabend. Mi pare di ricordare - invece - che gli anni dal 60 al 70 a Torino si presentavano ricchi e compositi, non solo colmi di eventi in direzione dell'arte protetta e pre-istituzionalizzata. A caso. Cremona e Galvano paiono non essere mai esistiti. Idem per Ruggeri, Salvo, Piacentino. Non han cantato nulla le mostre dell'Espressionismo tedesco, di Marc Chagall e poi di Schwitters, Dorazio, Capogrossi. Ridotti all'osso Carluccio, Passoni, saltato a pie pari il Punto con il Nouveau Réalisme, Rotella e poi Adami, Baj e mille altre vicende. Cancellato il primo evento Fluxus in Italia con Ben Vautier, censurata la nascita del cinema sperimentale e degli artisti, dimenticate le presenze quelle sì importanti - di Jonas Mekas, di P. Adam Sitney e quella di Alien Ginsberg. Ignoti Fernanda Pivano, Angelo Pezzana, il Fuori e tutta la cultura gay che a Torino è nata e si è propagata in tutta la nazione e oltre. Ci sono in compenso tonnellate di Pistoi e Sperone e di Flavin, Darboven, Andre, Wiener, Kosuth, Huebler, Morris che credo abbiano più che altro da fare con le loro controfigure. Ida Giannelli nel molto modesto testo in apertura del catalogone ha almeno il pregio d'essere esplicita quando parla di «un'era vicina che andava ricostruita e aggiornata perché da essa si proietta l'immagine del presente o dell'avvenire che il museo ha deciso di scegliere e di condividere». Chiaro? Si manipola, si mutila in modo strumentale un passato che non si conosce per «far grande» quello che il «loro» museo ha da tempo deciso di promuovere. In catalogo molte interviste svogliate, un bel florilegio di omissioni, molta cattiva coscienza che raggiunge la vetta nel «vaniloquio con l'oste» del confuso Franti-Fossati. Non c'è stupore però. L'ufficialità, il regime o quel che vi pare, san sempre uguali nei secoli. Ci si rigenera, si affinano i mezzi, si ignora ciò che non è funzionale, lo si tace. La bella avventura dell'arte come fatto di cultura frutto di individualità anomala è sospetto, denigrato e buttato. Anche per questo l'arte è divenuta un optional asfittico, roba per pochi eletti e criptocultori da mostrare in musei imprenditivi ma deserti, in quei luoghi in cui ciò che si autodefinisce avanguardia ha il ghigno ottuso dell'ufficialità, del pompierismo e dove ciò che è fuori è fuori da questa storia e forse è davvero fuori per sempre, Ugo Nespolo

Luoghi citati: Italia, New York, Rivoli, Torino, Venezia