«Qui ci sono 315 deputati di troppo» di Alberto Rapisarda
In un'aula incandescente, Amato ha concluso il dibattito sulla questione morale «Qui ci sono 315 deputati di troppo» Il Premier: il Senato fa lo stesso lavoro della Camera In un'aula incandescente, Amato ha concluso il dibattito sulla questione morale ROMA. Un Amato irriconoscibile, dall'aria dimessa e quasi rassegnata, ha replicato ieri alla Camera al dibattito sulla cosiddetta «questione morale». Si attendeva la ripetizione della gazzarra che al Senato lo investì per iniziativa di Rifondazione comunista e missini. E' arrivata puntuale ma forzata, come una recita dovuta di missini e leghisti, più dettata dalle regole dello spettacolo televisivo e dei titoli dei giornali che da visibili convinzioni. Una giornata, nel complesso, triste per quell'aria di rassegnata impotenza con la quale i parlamentari si ostinano ad affrontare la indignazione montante della pubblica opinione, senza riuscire ad compiere un gesto pubblico convincente. Una giornata di cattivi presagi per il governo, aperta con le dimissioni di Renato Altissimo, un altro segretari j di un partito di governo che esce di scena e chiusa col brontolio di tuono delle dichiarazioni di Cagliari che tirano in ballo un altro ministro, il socialista Reviglio, suo predecessore alla guida dell'Eni. Che succederebbe se anche lui fosse raggiunto da un avviso di garanzia? Il dibattito e il voto conclusivo di ieri alla Camera non ha dato risposte certe a questa domanda che continua ad assillare il Presidente della Repubblica. Doveva essere l'occasione per sancire una convergenza di de- psi-psdi-pli con pds e pri in nome delle cose da fare per affrontare la crisi di Tangentopoli. Un modo per preparare una nuova maggioranza di governo. Il voto comune non c'è stato ma neanche lo scontro frontale. C'è stato uno scambio di convenevoli tra Amato e i pidiessini con dichiarazioni e gesti, come l'accettazione da parte del governo di una risoluzione presentata dal capo dei deputati del pds, D'Alema, per sollecitare la nomina dei dirigenti degli enti pubblici. O come la dichiarazione di Occhetto che prende atto che Amato riconosce «che non è obbligata per noi la scelta tra chi lo applaude e chi gli scaglia contro monetine». Un filo di dialogo è avviato. «Su alcuni punti si sono registrate convergenze significative che andranno verificate negli sviluppi del lavoro parlamentare» ha detto D'Alema. Il presidente del Consiglio, però, non pareva per nulla sollevato, probabilmente per la ragione che gli hanno spiegato i repubblicani: non puoi guidare il futuro «governo di svolta» perché agli occhi della gente «non hai più un capitale di fiducia da spendere». La cosa che più ha fatto clamore, tra quelle dette da Amato nella sua replica, è stata la proposta di dimezzare il numero dei deputati, annunciata con un tono quasi da sfida. Il Senato fa l'esatto lavoro della Camera con 315 membri, «evidentemente in questa Camera ci sono 315 deputati di cui si potrebbe fare a meno». 630 circoscrizioni uninominali, quanti sono oggi i deputati, «sarebbero molto, molto piccole». Amato ha colto «alcuni elementi di fiducia» anche nelle mozioni dei gruppi di opposizione ed ha sottolineato una «rilevante assonanza» con pds, pri e federalisti europei sulle riforme proposte. Ha anche spiegato che, grazie al governo, d'ora in poi sarà la Guardia di Finanza ad occuparsi dei parlamentari che omettono di dichiarare alle Camere l'entità delle proprie sostanze finanziarie. Ha commentato con freddezza il segretario del psdi, Vizzini, uno della maggioranza: «Il discorso di oggi mi pare più di un professore universitario che quello del capo del governo». Il segretario pro-tempore del pri, Bogi, ha colto nel discorso «un grande grigiore». I democristiani, poi, dipingono la situazione con toni di grande allarme. Martinazzoli, segretario della de, vede «un rischio mortale per la democrazia», «mai una crisi è stata così grave» ed ha apertamente criticato il decreto del governo bocciato da Scalfaro che ha «accentuato la distanza» tra i partiti e i cittadini. Il ministro dell'Interno, Mancino, anche lui democristiano, in una intervista ad Euros, denuncia che «nell'Italia di oggi tutto può diventare possibile, anche una avventura di rabbia incontenibile. Non c'è tempo da perdere. In queste condizioni il Paese non può certo aspettare un anno». Per Mancino la riforma elettorale che seguirà al voto del 18 aprile dovrebbe introdurre un sistema uninominale all'inglese per il 60 per cento, col restante 40 distribuito in base ai voti raccolti da ciascuna lista. Per Mancino va bene il ballottaggio in due domeniche successive, come chiede il pds. Alberto Rapisarda I presidente del Consiglio Giuliano Amato ieri al banco del governo
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