QUEL LUNGO VIAGGIO NELLA CULTURA FASCISTA di Oreste Del Buono

QUEL LUNGO VIAGGIO NELLA CULTURA FASCISTA QUEL LUNGO VIAGGIO NELLA CULTURA FASCISTA Zangrandi e il «Primato» di Bottai I sa che dopo il 25 luglio 1943, per una di quelle rapinose e repellenti convulsioni che sono caratteristiche della Storia d'Italia, almeno durante i giorni del primo governo Badoglio, risultò molto difficile reperire nel nostro Paese un solo fascista confesso, a parte il povero Manlio Morgagni, presidente dell'Agenzia Stefani che si uccise per lo sconforto. Tutti esultavano nelle piazze per la caduta del tiranno già adorato sino all'apostasia e impazzavano su statue e cadaveri del passato regime in nome di un antifascismo che si arricchiva, di sfogo in sfogo, di pittoreschi e audaci episodi, di accese e convinte rivendicazioni di spregiudicata indipendenza e di assoluta, intollerante certezza di un futuro immune da tare e ombre, vivibile alla luce del sole. Poi ci fu, è vero, anche l'8 settembre 1943, l'armistizio, un'altra pagina infelice per le rimembranze militari, con la fuga del maresciallo Badoglio insieme con il piccolo Re verso il Sud e il Nord d'Italia ripreso in forza dalla Repubblica Sociale, il fascismo rinato, al servizio degli occupanti tedeschi. La conversione totale all'antifascismo avvenne solo a cosiddetta liberazione avvenuta anche a Milano il 25 aprile 1945. Ma i testimoni di parte fascista stentarono ancora un poco ad affrontare i tribunali o i palcoscenici per fornire la loro versione. Dopotutto, per un poco di tempo ancora, si continuò a trovare al risveglio le piazze e le strade ornate di morti ammazzati, noti o ignoti giustiziati privatamente a torto o a ragione. Il primo a testimoniare fu Ruggero Zangrandi con il volume Il lungo viaggio. Contributo alla storia di una generazione edito da Einaudi nel 1948, e poi accresciuto di documenti sotto il titolo II lungo viaggio attraverso il fascismo edito da Feltrinelli nel 1962. Zangrandi, nato a Milano nel 1915 ma poi vissuto a Roma, aveva conosciuto nel 1929 nella terza ginnasiale B del Liceo Ginnasio «Tasso» di Roma un altro milanese tra piantato nell'Urbe, Vittorio Mussolini, secondogenito del Duce, e ne era diventato amico Ad alcune sue argomentazioni su come il fascismo avrebbe potuto esser migliore, si era senti to rispondere seccamente: «E' inutile. Il fascismo è tutto un "bluff': papà non è riuscito a far niente di quel che voleva. Gli italiani sono fascisti per vigliaccheria e della rivoluzione se ne fregano». Ruggero Zangrandi era stato un collaboratore appassionato del giornaletto studentesco La Penna dei Ragazzi fondato da Mussolini figlio che era uscito prima ciclostilato, poi a stampa e, alla fine, era diventato rivista sotto il titolo, partorito dalla fantasia di Mussolini padre, di Anno XII e così via. Ruggero Zangrandi era stato redattore capo sino al 1935, ma all'inizio di quell'anno si era dimesso, in sieme con altri. L'Anno XIV, quello che avrebbe dovuto programmare e riflettere la conquista dell'università e nuove strategie di rivoluzione, non era uscito per eccesso di inquie tudine da parte di alcuni come, appunto, Ruggero Zangrandi e di indolenza, come, appunto, Vittorio Mussolini. E nell'otto bre, con la guerra in Etiopia, Vittorio Mussolini era partito volontario per l'Africa orientale, in omaggio al desiderio pa terno, accompagnato dal frate! lo Bruno, dal cugino Vito, figlio di Arnaldo Mussolini, e dal co gnato Galeazzo Ciano, marito della primogenita Edda. Tutti, naturalmente, in aeronautica. Ruggero Zangrandi aveva declinato l'invito cordia le ad aggiungersi alla compa gnia, adducendo la forte mio pia. E, quando Vittorio Musso lini era definitivamente tornato a casa, molte cose erano cam biate in tutt'e due. Ruggero Zangrandi, ad esempio, aveva mandato all'aviatore una re la zione su alcune disavventure politiche in cui era incorso, e aveva ricevuto a volta di cor riere in data 10 gennaio 1936, una lettera che sapeva già di commiato: «Caro Ruggero ho letto della famosa adunata. Hai fatto le cose in grande, tanto da attirare su di te gli occhi della polizia. Vorrei sapere un po' di più perché non posso ancora capacitarmi che tu sia sorvegliato dalla polizia». Sebbene amico di un figlio del Duce e dal Duce stesso invitato a collaborare al Popolo d'Italia, Ruggero Zangrandi aveva suscitato l'interesse dell'Ovra già dal 1935. Perla conoscenza del mondo fascista, può essere considerato un testimone di primo piano a proposito di quella che fu o non fu la cultura del regime. Ebbene Ruggero Zangrandi, che per la sua partecipazione dapprima alla fronda, poi sempre più all'opposizione era stato arrestato e deportato in Germania e, al ritorno in Italia, si era iscritto al pei, non è certo annoverabile come un testimone a favore di Giuseppe Bottai. Ho già riportato il suo parere contrario a Crìtica fascista. Un poco, ma non molto, meno drastico è il suo parere a proposito di Primato: «Con Primato, è noto, Bottai ripeteva l'esperimento di Critica fascista "a livello di 25 luglio"», scrive Ruggero Zangrandi, anche se Primato apparve nel 1940, nella prima estate di guerra italiana, e il 25 luglio fatidico si verificò nel 1943, dopo tre anni di guerra che avevano scardinato e alterato completamente la vita italiana, ma così fanno spesso di testimoni che credono di avere dei diritti di esclusiva su un determinato periodo che hanno vissuto, «cioè già nel clima dello scatenamento delle rivalità dei gerarchi e del più o meno prossimo, e preventivabile, colpo di Stato, mirava, insomma, a crearsi una piattaforma politica personale, in vista della successione, facendo leva sulla parte senza dubbio migliore della cultura italiana e su elementi che egli conosceva benissimo come antifascisti...». Ruggero Zangandi, da fascista pentito pensa il peggio non solo di chi continua a essere fascista ma anche di chi è antifascista non di ultima ora. «Questi ultimi dal canto loro pensarono, è altrettanto noto, di giovarsi dell'occasione che egli offriva per fare della fronda, anche questa a livello piuttosto elevato, in campo culturale», aggiunge. «Il quesito non verte, quindi, su quale delle due parti fosse più furba e avrebbe alla fine messo l'altra nel sacco, in un gioco che era quasi scoperto: non solo la storia, ma anche l'intuizione insegnano che il perdente predestinato, in quel caso, era il gerarca. Ciò che ci si potrebbe chiedere è quanto abbiano giovato, al di fuori della ristretta cerchia d'intellettuali iniziati (i quali non avevano più ormai, è da sperare, molto da comprendere) tutti quegli scritti di grande valore culturale ma proprio per questo poco accessibili a masse di lettori, che, appunto in quegli ultimi mesi, erano le più bisognose di essere orientate in base a idee semplici, chiare, magari espresse in termini formalmente fascisti, ma sostanzialmente rivoluzionari...». Qui, per fortuna Ruggero Zangrandi si accorge di essersi spinto oltre nella confessione delle sue idiosincrasie e conclude: «E' del resto, una disputa superflua - come altre del genere, poiché non credo si potrebbe mai risolvere con un verdetto netto. Ognuno vi ha una parte di ragione e, se non ad altri, cer to Primato fu utile a quegli in tellettuali italiani che poterono ritrovarsi e riconoscersi, su una tribuna ancora legale ma d'o rientamento abbastanza chia ramente oppositorio. Semmai qualche riserva si deve mantenere, penso, sull'opportunità che, appunto in una sede culturalmente tanto qualificata e in un tempo che non consentiva più equivoci, continuassero mescolarsi e apparentemente a convivere personalità note (or mai anche tra quelle più giova ni) e così diverse per origini orientamenti e responsabi lità...». Come per Critica fascista aveva rimproverato al fascista critico Giuseppe Bottai che de siderava un fascismo migliore la scarsità di impegno antifa scista, per Primato, Ruggero Zangrandi gli rimproverava di aver fatto in tempo fascista una rivista troppo pluralista, che ammetteva l'incontro tra varie tendenze e convinzioni politi che e culturali. Insiste sul tasto del deludente rigore antifasci sta perché nelle pagine di quella rivista, accanto alle firme di antifascisti, più o meno conoscimi e «riconosciuti» come quelle di Carlo Emilio Gadda, Luigi Salvatorelli, Arrigo Benedetti, Sergio Solmi o Giaime Pintor, Mario Alicata, Romano Bilenchi, Enzo Paci, Vasco Pratolini, Carlo Muscetta, Antonello Trombadori, potevano figurarvi quelle di «vecchi scrittori e critici fascisti» come Riccardo Bacchelli, Massimo Bontempelli, Paolo Monelli, Luigi Chiarini o di fascisti «meno anziani, ma non meno decisi allora» come Indro Montanelli, Guido Piovene, Corrado Sofia, Leo Longanesi e altri. L'elencazione, a modo di esempio e di allarme circa la contaminazione dei nomi dei collaboratori di Primato, è lacunosa. In realtà, i nomi da citare sono molti di più, e il tessuto culturale della rivista risultò ben più complesso di imo schieramento di fascisti contrapposto a uno schieramento di antifascisti. Dove pubblicare, infatti, se non su Primato l'articolo di Giaime Pintor «Commento ad un soldato tedesco» che la rivista di Giuseppe Bottai presentò in data 1° febbraio 1941? «L'idea germanica, le insegne dell'Impero a Norimberga e i discorsi di Fichte non sono importanti qui. Importante è vivere con i soldati la loro vicenda quotidiana, muoversi da un Paese all'altro secondo gli ordini che si ricevono e lentamente accondiscendere a questa abitudine di vita così da farla propria e da sentirla familiare e necessaria più che un dovere. Chi non veda l'importanza di questo passaggio per la storia attuale è piuttosto maldisposto. Perché la traduzione di un tale stato d'animo sul terreno politico è chiara e precisa: significa adozione della guerra come modo di vita e conquista di un mito a cui sorreggersi con la stessa forza che si dedicava un tempo al voto religioso... Perché portato a un tale rigore il culto della disciplina, la vittoria confina con l'abdicazione; la scelta di una missione con il rifiuto delle responsabilità. Come sempre i due poli della forza estrema e della debolezza sono vicinissimi; e a chi voglia giudicare tra i limiti rimane solo una misura di paragone: l'esito dell'impresa. Perché è facile dall'altra parte affermare che si tratti di fenomeni secondari di reazione e raccogliere sotto un giudizio di estetismo militare certe dichiarate preferenze. Ma finché il successo accompagnerà le grigie armate del Reich, e sulle città conquistate sventolerà la bandiera bianca e rossa, non vi sarà posto in Europa per altri uomini e per un'idea contrastante...». E' per una simile pagina e altre che potei leggere da ragazzetto stordito su Primato che mi permetto di nutrire riconoscenza per quella rivista e per il suo fondatore: Giuseppe Bottai che nel tardo pomeriggio del 24 luglio 1943 per partecipare al fatale Gran Consiglio raggiunse Palazzo Venezia con una decisione in testa: «Non è più questione di "tradire" o di "non tradire", ma di avere il coraggio di confessare il tradimento da Ini compiuto, giorno per giorno, dalle prime delusioni a questo crollo morale...» e in tasca una bomba a mano da usare in caso di complicazioni. Non ce ne fu bisogno. Paradossalmente il fascismo cadde legalmente come legalmente era salito al potere. Il 27 luglio Bottai fu fatto arrestare da Badoglio. Il 13 settembre fu scarcerato da Regina Coeli in una Roma ormai occupata dai nazisti. Restò, nascosto in questo e quel convento, mentre il Tribunale di Verona lo processava e condannava a morte in contumacia come traditore. La Repubblica di Salò annunciò nel 1944 che l'esecuzione era stata eseguita. Giuseppe Bottai il 23 agosto 1944 riuscì a imbarcarsi in un volo per l'Algeria, dove si arruolò nella Legione straniera per combattere i tedeschi senza rischiare di essere contrapposto agli italiani. Partecipò allo sbarco nella Francia meridionale, si scontrò con i tedeschi sul Reno sotto il nome di Andrea Battaglia. Era stato generale a trent'anni, diventò sergente a cinquanta. Morì a Roma l'8 gennaio 1959. Oreste del Buono Testimone di primo piano tra le riviste di regime, ha lasciato un decisivo «Contributo alla storia di una generazione» Ruggero Zangrandi Accanto: Giuseppe Holtai