TANGENTOPOLI NON SA PIÙ' A CHE CLASSICO VOTARSI

TANGENTOPOLI NON SA PIÙ' A CHE CLASSICO VOTARSI Parliamone TANGENTOPOLI NON SA PIÙ' A CHE CLASSICO VOTARSI w] N questo marasma di gente i che annaspa, tornano buoni II persino i vecchi classici, in I una gara spesso ridicola e *| sprovveduta. Cominciò Craxi alcuni mesi or sono riferendo che stava leggendo Seneca, rammentatore che tutto dura poco, che il saggio dev'essere imperturbabile e che gli conviene vivere non in città ma in villa. Ora si rifa a Seneca, Lettere a Lucilio, l'ex presidente Cossiga per coonestare il suo invito dei «Tutti a casa!». Seneca esercita una forte attrazione. Era anch'egli un debole, un esule, un grande arricchito, un politico riformatore, un uomo pieno di contraddizioni. Il suo avversario Tigellino, prefetto del pretorio, che lo costrinse al ritiro definitivo dalla vita politica, figura come uno dei moni soprannomi appioppati a Giuliano Amato, insieme a quello ormai noioso che si richiama a Guglielmo di Ockham e, da poco tempo, anche al personaggio di una commedia di Ben Jonson che promette a tutti la pietra filosofale ma alla fine viene sconfitto e costretto alla fuga. De Mita si è dimesso, seguendo l'esempio di Scipione Africano, protagonista di un processo per colpa di peculato del fratello, che sarebbe tutto da rileggere; ancor più del processo di Verre che, scenario la Sicilia, la Bur offre ai Leghisti col suo copione perfetto: un governatore ladro fatto condannare per concussione da un Cicerone-Di Pietro, eppur finito a godere i frutti dei propri misfatti sulla Costa Azzurra. Amato si dichiara ormai disgustato dei «toni accesi» assunti in Italia dalla lotta politica e da scene come quelle recenti del Senato che, dice, gli hanno ricordato «U coro dell'antica tragedia greca», dove tuttavia volavano lamenti ma non schiaffi. Laterza a sua volta getta ai politiri la boa dell'autodifesa e del contrattacco di Francesco Guicciardini, tacitiano di vaglia e di fama, ammonitore di principi e di repubbliche, uno che la sapeva lunga sugli uomini e sulla politica. La costanza di questi richiami o ricorsi all'età neroniana non sano dei più incoraggianti. La fregola della citazione o del riferimento contagia un po' tutti, producendo in alcuni casi, per la sua improvvisazione, tanfi madornali e relative ritrattazioni in piena aula parlamentare. Non ne sono esenti, dalla fregola e dai tonfi, nemmeno i giornalisti. Un articoletto del Corriere della Sem di mercoledì 10, pagina 17, parlando dell'operazione Piazze pulite condotte dal Comune di Roma contro i vespasiani, evocava l'imperatore Eponimo e spiegava come Erodoto (il quale nacque verso il 490 e morì verso il425 a.C), noto «storico della guerra del Peloponneso» (combattuta dal 431 al 404 e in gran parte narrata dal suo collega Tucidide), raccontasse la morte dell'imperatore Vespasiano, avvenuta nel 79 dC. Si faceva poi dire a Svetonio che al medesimo imperatore risale la costruzione dei primi e ora soppressi lieux d'aisances, cosa che in realtà Svetonio si guarda bene dal raccontare (dr. il capitolo 23). Se persino Sting introduce in una canzone del suo ultimo album, «St. Augustine in Hell», l'antico vescovo di Ippona come antesignano della colpa del piacere o del piacele della colpa, la grande assente da questo Rinascimento è proprio la Chiesa. Sulle labbra del Sommo Pontefice o di Monsignor Tonini gli echi delle lingue dei padri sono assai più radi che su quelle del forbito capogruppo dei deputati democristiani onorevole Gerardo Bianco. Nel discorso alla Camera il professore è riuscito ad accoppiare in un colpo solo il sullodato Tucidide e Manzoni a don Sturzo e a Dahrendorf. Tace invece anche in latino l'onorevole Andreotti, riceraniano di ferro e antelucano, anziché interioquire a buon diritto - Bossi non osa nemmeno -. Così Andreottà non sbaglia certamente, né nel citare né nel tacere (ma vedi Cicerone, Orazione per Sesuo, capitolo 18: Non infilando confiten vidébantur, Non negando sembravano ammettere).

Luoghi citati: Comune Di Roma, Italia, Laterza, Lettere, Sicilia