Ebrei, avete finito di essere un popolo

Ebrei, avete finito di essere un popolo David Vital, studioso del sionismo: «E' accaduto l'inconcepibile, è morta la diaspora» Ebrei, avete finito di essere un popolo N esploratore di terre sconosciute: così, con la sahariana e il cappello rigido color cachi te lo immagini David Vital, breve barba bianca, occhi vivissimi, piccolo e scattante. Invece è un professore di Scienze Politiche all'Università di Tel Aviv, rapido nel parlare un british English che racconta la sua nascita inglese, e forse un po' anche la sua nostalgia. Infatti, nel 1945, dopo aver combattuto in Europa con l'esercito inglese che prese le mosse dalla Palestina, scelse, giunto ormai nel suo luogo d'origine, di far ritorno in Israele non senza turbamento. Ha scritto fra l'altro una storia del sionismo in tre volumi e tanti saggi sulle relazioni internazionali. Adesso è in Italia per presentare il suo libro più difficile, più iconoclasta: si tratta de «Il futuro degli ebrei», edito dalla Giuntina. Mentre Philip Roth vaticina dagli Stati Uniti la fine d'Israele ed il ritorno nella dispora del cuore pulsante dell'ebraismo, lui disegna per gli ebrei un avvenire del tutto opposto. Dopo Firenze e a Bergamo, stasera alla libreria Luxemburg di Angelo Pezzana a Torino, Vital spiegherà infatti che è il sionismo ad essere morto e che gli ebrei della diaspora sono destinati a sparire. Professore, da «Il futuro degli ebrei» si viene a sapere che il popolo ebraico è destinato a non essere più uno solo. Lei parla di tre, quattro popoli ebraici. Ora l'unità degli ebrei è sempre stata la loro essenza vitale. Questo significa la fine? «Sì, la fine della diaspora. Il tempo e il luogo fino a duecento anni fa, prima dell'emancipazione, hanno contato ben poco. Poi è accaduto l'inconcepibile sia sul piano della percezione che su quello della realtà. La percezione: la riconoscibilità degli ebrei è venuta meno nei modi di vita, nello stesso abbigliamento. E gli altri non li possono più riconoscere e anche la loro autoriconoscibilità è caduta. Nella realtà, negli ultimi duecento anni, l'acculturazione ha portato a parlare la lingua del posto, a conoscere più Goethe o Dante che il Talmud, e soprattutto a non parlare più ebraico. Gli ebrei americani sono americani, punto e basta...». Molti conservano la tradizione, molti hanno un forte senso di appartenenza. «Tutto questo è molto vago. Quello che è certo, invece, è che nei millenni non abbiamo mai visto un fenomeno di assimilazione simile a quello che gli ebrei vivono oggi». Pare che a Babilonia fossero assiniilatissimi, e anche in Egitto. «Sì, ma è accaduto qualcosa di definitivo e basilare durante il nostro secolo: fino agli inizi del Novecento esisteva una nazione intera nel cuore dell'Europa, ed era la nazione ebraica. Era una nazione costituente dell'Europa Centrale. Gli ebrei erano formalmente riconosciuti come minoranza, sia in Russia che in Polonia dove un terzo della popolazione era ebraica contro due terzi di polacchi. Gli ebrei collaboravano nel campo amministrativo ed economico con altre due minoranze istituzionali, quella dei tedeschi e con gli ucraini della Polonia... Tutto questo è finito». E' finito a causa dell'Olocausto. «Anche a causa dell'Olocausto, ma anche, per esempio, a causa del comunismo. Nell'Urss senza scuole, senza lingua ebraica, senza sinagoghe, gli ebrei hanno subito un autentico lavaggio del cervello. Insomma, il cuore dell'ebraismo propulsivo, integralmente ebraico, definito come nazione nei costumi e nella percezione è morto per sempre». Esiste però Brooklyn, esistono fenomeni di ebraismo integrale in alcune parti della Francia... «Quelle le può considerare zone di fauna protetta, interessanti archivi del passato, quelli sono gli ultimi dei mohicani. Essi costituiscono solo il ricordo di un popolo». Non pensa che Israele costituisca un nuovo elemento d'identità vitale che ne conserva l'unità sia pure in maniera piuttosto ideologica e astratta? «Al contrario. Israele è per gii ebrei una pietra di paragone controversa, sostanzialmente scomoda, e inconciliabile con la vita diasporica». Nei fatti gli ebrei del mondo sono quasi tutti molto attaccati a Israele I «Ne è così sicura? Guardiamo: dal punto di vista culturale e ideologico oggi come oggi è molto problematico per gli ebrei secolari mantenere l'identità ebraica nella diaspora. Se non si mettono il talled, se non osservano il sabato, che cosa resta loro della vita ebraica? Invece Israele rappresenta una soluzione molto concorrenziale per il dilemma: essere non religioso e restare ebreo. La nostra, infatti, è la sola società dove non esiste la doppia nazionalità, dove sei quello che sei, dove la Hngua nazionale è quella ebraica, quella della Bibbia, dove ogni istituzione è ebraica. Insomma, gli ebrei americani sono parte ormai della storia americana, e noi, senza dubbio alcuno, siamo l'unico vero ultimo anello nella catena della storia integralmente ebraica». Nel fenomeno che lei descrive, ci sono molti motivi di contrasto, ma c'è anche il motivo di un rapporto passionale fra diaspora e Israele, che di fatto esiste. «Già, ma in questa eventuale passione ci sono troppe spine e nascono tutte da un solo punto ben preciso: mentre quello che accade in Italia, in Francia, o anche in America interessa relativamente a noialtri in Israele, quello che invece accade in Israele è essenziale per tutti gli ebrei del mondo. La vita fisica stessa degli ebrei ne è influenzata e determinata, e questo può essere molto imbarazzante, per esempio, per un ebreo americano che è, senza dubbio, un ebreo part-time, e che se ne ricorda solo a Pesach e a Kippur». Non crede che invece un ebreo se ne ricordi molto ma molto di più, volente o nolente? «Ecco: spesso se ne deve ricordare proprio a causa d'Israele. Per esempio, gli ebrei americani avevano buoni rapporti con i neri d'America, rapporti costruiti nei bei momenti delle battaglie per i diritti civili per i neri stessi. Adesso, per motivi di terzomondismo filopalestinese, per un'identificazione d'Israele con l'Occidente sfruttatore contro i derelitti dell'emisfero Sud, i neri d'America ce l'hanno a morte con gli ebrei americani. Fosse solo per questo, gli ebrei americani vorrebbero una politica diversa da parte d'Israele verso i palestinesi. Ora, è chiaro che la nostra politica dev'essere determinata, come la politica di qualsiasi altro Stato, da ragioni sostanzialmente interne, dal nostro interesse vitale...». Mi pare che Israele abbia un interesse vitale anche ad andare d'accordo con la diaspora, che lo sostiene moltissimo. «L'interesse reciproco, sì, ma nell'intellighenzia americana liberale c'è un'acuta inclinazione a essere dissociati da Israele. Durante la guerra del Golfo non ero in Israele per un periodo d'insegnamento all'Università di Chicago, e la televisione americana m'intervistava continuamente come esperto del Medio Oriente, ovviamente affezionato alle ragioni d'Israele. Oltretutto la guerra del Golfo non era affatto una situazione scabrosa per noi israeliani. Tuttavia, quando sono partito, mi sono impegnato a fondo a trovare nell'università qualcuno che mi sostituisse come esperto d'Israele: su circa trecento professori ebrei non ne ho trovato neppure uno che volesse sostenere un punto di vista ebraico-israeliano». Si riferisce alla politica dei governi israeliani che risulta sgradevole alla diaspora? «Non solo, anche a qualcosa di molto più profondo: gli ebrei della diaspora odierna sono abituati a essere eterogovernati. Mi spiego? La responsabilità finale della loro vita, il potere sovrano, la responsabilità e quindi anche le colpe sono sempre stati nella storia di qualcun altro. Adesso, invece, con Israele siamo in presenza di una comunità ebraica il cui dovere primario è perseguire l'interesse nazionale degli ebrei e portarne le responsabilità e le colpe». Non pensa che a fronte di quest'obbligo, agli ebrei della diaspora sia restato il pegno dei valori dell'ebraismo? «Se lei li intende come il rifiuto di avere uno Stato che naturalmente comprenda l'uso della forza, la polizia ecc., allora può darsi. Io, invece, intendo che l'odierno valore ebraico più interessante sia quello della fertile lotta con se stesso che ogni ebreo israeliano compie in bilico fra il dovere della sopravvivenza e il desiderio della non violenza». Lei pensa che lo Stato d'Israele abbia risolto bene questo dilemma? «Non so: a me personalmente non piace dover gestire la forza, ma capisco l'importanza dei compito che ci tocca. «Non mi piace, invece, decisamente, e lo confesso, l'atteggiamento degli ebrei che si lavano le mani del nostro rischio e della nostra responsabilità, e non vogliono avere a che fare con ciò che considerano sporchi affari, restando quelle anime belle che, a naso in aria, perseguono la loro vita morale». Lei disprezza gli ebrei diasporici, dica la verità. «No, non li disprezzo. Ma non amo i doppi registri, in nessun caso: non mi piace che uno sia ebreo a casa e americano o italiano nella società. C'è. un solo modo di essere ebreo, ed è esserlo integralmente. Per quello, bisogna stare qui». Lei sa bene che molti religiosi sono invece radicalmente contrari a questo punto di vista: lo Stato ebraico, dicono, dev'essere fondato solo dopo l'avvento del Messia... «Eppure anche Yeschaiau Leibowitz, il grande pensatore radicale che odia lo Stato e lo fustiga in tutti i modi dal punto di vista religioso, dice: vivo qui perché è meglio non essere governato dai goym, ovvero dai gentili. Ciò che vuol dire è che chi voglia vivere una vita ebraica, comunque intesa, al giorno d'oggi può viverla solo nello Stato d'Israele». E lei pensa che dunque gli ebrei verranno spinti da così forti ragioni? «Forse no: il sionismo è sempre stato l'ideologia di una minoranza. Molti sono venuti semplicemente perché dovevano andare da qualche parte, superando quell'attacco che implicitamente il sionismo porta in modo pesante al modo di vivere di ogni ebreo nella diaspora. Non è facile venire, in passato poi questo era un Paese poverissimo, e ancora, rispetto agli standard occidentali opulenti, non rappresentiamo una realtà così attraente. E poi, qui c'è la guerra...». E allora? «Allora il mondo ebraico fuori d'Israele si dissolverà. Evaporerà lasciando un sedimento». E' molto triste la sua previsione. «Un ebreo americano vede Israele come un ritorno nel ghetto da cui proveniva suo padre; venire qua vorrebbe dire per lui invertire la marcia dell'emancipazione, del benessere». Fiamma Nirenstein «Assimilati dal paese in cui vivono, conoscono più Dante e Goethe del Talmud» «Brooklyn? Una zona di fauna protetta Quelli sono gli ultimi dei mohicani» A sinistra un rabbino dà lezione. Sopra David Vital: insegna Scienze politiche all'Università di Tel Aviv A sinistra un rabbino dà lezione. Sopra David Vital: insegna Scienze politiche all'Università di Tel Aviv