«Verrà un'Italia migliore» Lettera sulla nostra crisi di Gaetano Scardocchia

«Verrà un'Italia migliore» Lettera sulla nostra crisi TANGENTOPOLI VISTA DA NEW YORK «Verrà un'Italia migliore» Lettera sulla nostra crisi CARO direttore, sarà perché leggo i giornali italiani con 24 ore di ritardo ed a cinquemila chilometri di distanza, ma mi riempiono d'angoscia. Che gli eventi siano sconvolgenti nessuno può negarlo. Mi pare, tuttavia, che i sentimenti che trapelano dalle cronache siano sempre e soltanto negativi: afflizione, amarezza, esecrazione, vituperio, sconforto, mortificazione, paura. Tutto, meno che la speranza. Che pure un suo posticino dovrebbe averlo in questa terribile, ma forse anche salutare, stagione di cambiamenti. Non ci crederai, eppure trovo qualche consolazione nei commenti che sempre più spesso ci dedica la stampa americana. Sono meno apocalittici. Certo, dirai, è facile dispensare saggezza quando non si è coinvolti. E' vero. Chi sta per essere investito da un incendio vede le cose in modo diverso da chi contempla lo spettacolo da lontano. Eppure mi piace pensare che lo spettatore esterno abbia talvolta una prospettiva emotivamente più stabile e storicamente più corretta: e perciò vede anche una via di salvezza, laddove noi vediamo soltanto fiamme e rovine. In un articolo apparso ieri sul New York Times, il corrispondente da Roma, Alan Cowell, paragona, appunto, l'Italia al superstite di un incendio. Si è rifugiato sul cornicione del palazzo e deve scegliere se farsi divorare dal fuoco oppure buttarsi giù sperando di cadere nella rete dei pompieri, ammesso che la rete ci sia. La tentazione di tornare indietro nella casa («l'ambiente che conosce, che gli è familiare, che gli è congeniale») è forte, ma è un istinto suicida: la casa è già intossicata dal fumo e sta crollando. La sola salvezza può venire dal salto. Anche nel buio, se necessario. Lo stesso giornale newyorchese aveva pubblicato nei gior- ni scorsi un editoriale nel quale si affermava che gli italiani devono saper vedere l'aspetto positivo del cambiamento: «Non hanno più alcuna ragione per temere un'operazione di pulizia e di democratizzazione di un sistema degenerato ed inefficiente. Paradossalmente, la caduta del comunismo può aver schiuso la porta ad una genuina rivoluzione politica». Ed anche gli americani, abituati a scoraggiare ogni cambiamento nei Paesi alleati, possono ora sperare che in Italia stia finalmente sorgendo «un'alba più democratica». Mi è capitato di leggere sul Wall Street Journal il commento di un banchiere americano dopo gli arresti ai vertici dell'Eni. Allarmato? Niente affato, rispondeva. E dava questa spiegazione: «I capi dell'Eni e delle società pubbliche non sono manager, ma politicanti camuffati da manager. La forza di alcune di queste società sta nella media dirigenza, non nei vertici. L'uscita di scena dei capi può anzi essere un fatto positivo». Diciamo la verità: se la grande stampa internazionale appare meno sorpresa, e direi a volte quasi contenta di ciò che sta accadendo in Italia, è perché aveva intuito da tempo la verità dietro le apparenze. Sì, questa stampa elogiava la vitalità della nostra economia - quando era davvero vitale - ammirava la creatività dei nostri designers, invidiava i nostri piaceri quotidiani (la buona tavola, le vacanze, l'allegria), ma sapeva che al di sopra ed intorno a tutte queste belle cose c'erano un debito pubblico più grande del prodotto nazionale ed un sistema politico «simile a quello ungherese o bulgaro» (The Economist), nel senso che il partito era tutto e lo Stato democratico era niente. Salvo qualche rara eccezione, i politici italiani non sono mai stati accettati e riconosciuti co¬ me membri di pari grado di quella comunità internazionale che condivide i valori ed i rischi della democrazia. I nostri presidenti del Consiglio ed i nostri ministri venivano formalmente riveriti, soprattutto come preziosi alleati di frontiera lungo la muraglia anticomunista, ma suscitavano sempre un certo disagio negli interlocutori. Perché? Perché erano degli estranei. Creature politiche aliene. Rappresentanti intercambiabili di un mandarinato che ostentava orgogliosamente la mancanza di ogni valore etico, oltre che la certezza di privilegi e di impunità che nelle altre grandi democrazie occidentali non esistono. Del resto, anche chi per ragioni professionali - come il sottoscritto - ha potuto seguire molti politici italiani in giro per il mondo, ha notato che essi finivano col sentirsi sempre più a proprio agio nei Paesi comunisti o del Terzo Mondo che non a Washington, a Londra o a Bonn. La cultura politica favoriva insomma connivenze e solidarietà diverse da quelle imposte dalle alleanze economiche e militari. Ricordiamo che quindici anni fa, Henry Kissinger scrisse cose tremende, e sostanzialmente vere, sul sistema politico italiano (che continuamente creava e disfaceva «punti di equilibrio» senza mai generare un vero potere esecutivo), ma da quando ha ottenuto lucrosi contratti di consulenza con aziende della Penisola si è ben guardato dal ripeterle. Visto da lontano e dal di fuori, il disfacimento del sistema politico italiano appare come un evento scontato, e semmai tardivo. E dunque, caro direttore, mi chiedo se noi giornalisti italiani non faremmo bene ad indicare, al di là delle vergogne e delle ignominie di questi giorni, anche i barlumi di riscatto, le speranze di rigenerazione che Tangentopoli ci offre. Bacone diceva che chi non trova nuovi rimedi è destinato a soffrire nuovi mali. Io qui a New York vedo ogni sera il Tg francese e poi, mezz'ora dopo, il Tgl italiano, ambedue trasmessi via satellite. Il Tg francese (notizie chiare, brevi, bene illustrate da immagini) viene proiettato con didascalie in inglese, così che anche lo spettatore americano può seguirlo con profitto. Il Tg italiano non ha didascalie. E non potrebbe averne: non riesco ad immaginare in che modo si possano tradurre in brevi frasi inglesi i tortuosi sproloqui provenienti da un pianeta impenetrabile. Perché il punto è proprio questo: da troppi anni la politica italiana è intraducibile. Colleghi italiani, aiutatemi a sognare che un giorno anche il nostro telegiornale potrà essere tradotto e capito. Gaetano Scardocchia Il «New York Times»: non avete ragione di temere un'opera di pulizia

Persone citate: Alan Cowell, Bacone, Henry Kissinger, Lettera

Luoghi citati: Bonn, Italia, Londra, New York, Roma, Washington