Quartetto Vermeer trasformista di P. Gal.

Quartetto Vermeer trasformista Unione Musicale Quartetto Vermeer trasformista TORINO. Ospite dell'Unione Musicale s'è ascoltato l'altra sera all'Auditorium il Quartetto Vermeer formato da Shmuel Ashkenasi, Pierre Menard, Richard Young, Marc Johnson, volonterosi e probi solisti che hanno aperto il loro programma con il Quartetto op. 74 di Beethoven, detto delle arpe per le note pizzicate che risuonano nel primo movimento. Esecuzione un po' timida, quasi priva di contrasti, svolta con circospezione in un atteggiamento di prudente distanza dal testo inarrivabile mentre, subito dopò, ben altra confidenza gli esecutori hanno mostrato nei confronti del Quartetto n. 1 («metamorfosi notturne») di Gyòrgy Ligeti che nasce dal ceppo di Bartók, raccogliendone l'eredità in una forma libera, capace di avvincere gli ascoltatori con la varietà dei suoi aspetti: pizzicati durissimi, tremoli spettrali, ritmi che s'impuntano per poi arrestarsi e lasciar spazio al cantabile, voci che risuonano come sirene, manciate di spilli, staffilate, fruscii, frammenti di danze e di melodie. In questo trasformismo il Quartetto Vermeer si è lanciato con passione, per vestire, nuovamente, panni accademici nel Quartetto in mi minore op. 44 n. 2 di Mendelssohn-Bartholdy: pagina bellissima per la mozartiana rotondità del primo movimento, la vivacità onirica dello scherzo, la dolcezza melodica dell'andante: e non importa se il finale s'inaridisce un po', perché finisce di galleggiare, nel ricordo degli spettatori, sulle impressioni del «romanticismo felice» suscitate dagli altri pezzi dove gusto aristocratico e freschezza sentimentale si uniscono in una rara alchimia. Il pubblico dell'Unione Musicale, che da qualche tempo va scarseggiando, ha applaudito i quattro solisti, ottenendo alla fine fuori programma una bella pagina di Janacek. [p. gal.]

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