Klee e un'orchestra Rai di qualità europea di Giorgio Pestelli

Klee e un'orchestra Rai di qualità europea Il maestro a Torino in un luminoso concerto con Brahms, Mozart e Schoenberg (solista Mari Kodama) Klee e un'orchestra Rai di qualità europea Capacità di ricrearsi e coinvolgersi, quando c'è un buon direttore TORINO. Una «Terza Sinfonia» di Brahms come quella diretta da Bernard Klee all'Auditorium per la stagione della Rai prova la qualità europea della nostra orchestra, la sua capacità di ricrearsi e coinvolgersi, quando a dirigerla sia una bacchetta di provata esperienza e di profonda musicalità. Una Terza armoniosa e luminosa, che Klee ha guidato in porto con mente vigile ed equilibrata; una Terza tutta classicità, cui la buona vena del drappello dei legni e del primo corno ha conferito una tinta di soavità bucolica; le onde sentimentali, agitandosi nella penombra, erano come suggerite e tanto più suonavano autentiche sotto il segno della più definitiva calma spirituale. Una sicura ipoteca alla riuscita brahmsiana è stata accesa fin dall'inizio con il Divertimento K113 di Mozart, uno di quei capolavori nati per caso quando lo straordinario adolescente passava le Alpi e riscaldava il suo genio alle bellezze d'Italia: quasi mai eseguito, il lavoro assomma agli archi due coppie di clarinetti e di corni, liberandoli a mille curiosità di dettagli e di ghiottonerie timbriche, tutte regolate da Klee con la padronanza del gran signore, con l'aria, essenziale per far bene Mozart, di lasciar parlare la musica da sola. Poco eseguito anche il Concerto per pianoforte e orchestra op. 42 di Schoenberg, che ha avuto nella giovanissima Mari Kodama un'interprete quanto mai congeniale. Anche questa, come la Terza di Brahms, è opera di maturità e saggezza; ma quanto diverse sono le cose che ci dice. Gli esegeti parlano di zone cantabili e di sereno lirismo; ma il comune concetto di canto è Eressoché estraneo a Schoenerg, e quanto a serenità non saprei trovarne un centimetro quadrato in una superficie che è tutta emulsione e sommovimento. Il «cantabile» è sostituito dal «flessibile», vecchio retaggio dello Schoenberg espressionista; e anche senza le crisi di nervi di un tempo il terreno percorso dal Concerto op. 42 è come bruciato da una antica lava, dalla quale spuntano solo fiori pallidi e ripiegati: anche il finale, che sulla carta sembra destinato all'ottimismo per l'invadenza di ottoni squillanti, all'ascolto diventa angoscioso per l'asprezza delle sovrapposizioni, per la luce tagliente sprigionata da quegli incontri diretti. La grandezza di Schoenberg sta nella capacità di variare all'infinito il modulo grottesco, di arrovellarsi su sviluppi e variazioni scrollandosi di dosso l'ingombro della convenzione; certo, nel Concerto per pianoforte con un gesto più riposato, con una sorta di classico distacco; ma serenità mai, il musicista resta fedele fino alla fine al suo nume tutelare, l'inquietudine. In questo spirito hanno letto l'opera il direttore e la pianista, e l'intendimento del pubblico è stato provato da calorosi e prolungati battimani. Giorgio Pestelli

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