Sette anni di clausura con Dante Alighieri

Sette anni di clausura con Dante Alighieri Esce la terza cantica della Divina Commedia commentata da Sermonti Sette anni di clausura con Dante Alighieri MILANO ER sette anni e mezzo sono vissuto con Dante dice Vittorio Sermonti -. IHo dedicato una parte della mia vita a lui, senza fare assolutamente altro». Si è chiuso nella sua biblioteca dantesca, a leggere, chiosare, schedare; e poi a scrivere. Ne è uscito soltanto per registrare la lettura, alla radio. Il risultato del lungo corpo a corpo è lì, nello scaffale dell'appartamento milanese dove Sermonti, pendolare con Roma, ha trattenuto poche edizioni della Divina Commedia; e dove spiccano i tre volumi Rizzoli del suo Gran Comento: l'Inferno, uscito nel 1988, il Purgatorio (1990), il Paradiso, che sta arrivando adesso in libreria. Sono più di millecinquecento pagine, dove lo scrittore romano, oggi sessantatreenne, ha rifuso i testi della sua impresa radiofonica, con qualche adattamento per la stampa; in attesa di rimettere mano al lavoro per l'edizione scolastica che gli è già stata richiesta. E' il segno di un lungo amore, la passione di una vita. I sette anni di lavoro, confessa, sono solo gli ultimi. Ma se deve calcolare tutto il tempo dedicato al poeta, diventano almeno venti. «Il mio rapporto con la Divina Commedia è nato a undici anni, durante la guerra, ascoltando mio padre che la leggeva ai miei fratelli, più grandi di me». Dice Divina Commedia, sempre con l'aggettivo aggiunto dal Boccaccio, che i filologi hanno da tempo abolito. Ma a lui quell'aggettivo sta bene, sembra non poterne fare a meno. Non la capiva, allora. E confessa che una parte di mi- stero rimane ancora oggi. Deve rimanere. «Il non capire comporta curiosità, spirito di avventura; capire significa solo spostare la soglia di quel che si è già capito, senza violare l'ignoto». Per il ragazzo di undici anni, l'ignoto era tutto. E conteneva, in sé, la seduzione della parola, il fascino dell'inestricabile. «In sostanza, io ho impiegato 50 anni di vita per documentare le emozioni e le percezioni ricevute da una lettura nella quale allora non avevo capito praticamente nulla. Sotto questo punto di vista gli ultimi sette anni di lavoro sono stati un reimmergermi nell'infanzia». Ci si è reimmerso a tal punto che ha rinunciato a tutto il resto. Viaggi, teatro, concerti. Perfino a molte partite di calcio confessa di aver dovuto dolorosamente mancare. E ha rinunciato alla maggior parte dei libri che non fossero danteschi. «Sono diventato ignorantissimo; i libri che escono ho cominciato a rileggerli quattro mesi fa, dopo sette anni». Non ha rinunciato, furtivamente, a qualche lettura fuori ordinanza. «Ho letto Queneau per vizio. Conrad, per vizio. Simenon, per vizio. Erano letture di cupo edonismo. Si rinuncia a tutto, tranne che ai vizi». Soprattutto, non ha rinunciato ai figli. «Erano bambini, quando ho cominciato il lavoro. Sono diventati ragazzi, oggi. A loro non ho rinunciato mai». L'idea del commento gli venne un'estate, al mare, su richiesta di Ludovica Ripa di Meana, la sua compagna, che non aveva mai letto il poema ordinatamente. «Gliene leggevo un canto al giorno, glielo spiegavo». Ed è stata lei a chiedergli di farne un libro? «Non me lo ha chiesto. Me lo ha ingiunto. Io esitavo, temevo di non avere la sicurezza sufficiente. Lei mi suggerì di parlarne con Gianfranco Contini, per sapere se poteva darmi un'autorizzazione». Contini accettò; gli garantì il suo avallo; ma dopo aver letto il commento ai primi cinque canti gli fece sapere che qualcosa non andava. «Lei contineggia troppo - gli disse - non deve»; e gli diede altri consigli: «In ogni canto voglio una considerazione interessante che io non conoscevo; e una cosa che mi faccia ridere». Con l'aiuto di Contini dolcissimo padre il lavoro andò avanti fino al ventisettesimo canto del Purgatorio, proprio là dove Virgilio lascia Dante. Il grande vecchio era da tempo malato, capì che non avrebbe potuto aiutare il suo allievo a completare l'opera, lo affidò a Cesare Segre perché potesse rivedere i commenti del Paradiso. L'impresa più difficile e, per lo scrittore, la tentazione più sottile. Anche per Vittorio Sermonti, come per i veri lettori di Dante, il Paradiso è la cantica più bella, la più ricca di poesia. Per il commentatore, è lì che si gioca l'ultima scommessa. Quanto ha lavorato Sermonti, in tutti questi anni? «Quando dovevo scrivere, da quattro a sei ore il giorno. Per il resto della giornata ero così stremato che potevo leggere solo i giornali, tendenzialmente le pagine sportive. Ma prima, quando dovevo studiare e schedare, dalle 12 alle 14 ore. Non ho fatto altro». Ha letto tanto, e ha scartato molto. Ha scelto i grandi commentatori stranieri (Singleton, Pézard, il tedesco Gmelin), ha scartato gran parte di quelli italiani. Soprattutto gli «estetizzanti», i «liricizzanti», verso i quali confessa la propria incompatibilità. «Mi sono stati utilissimi perché mi davano una irritazione tale che io dovevo reagire. Sembra che questi grandi studiosi non abbiano alcuna esperienza psicologica del peccate. Io, che ho molto peccato, ho inoculato nel sistema di Dante alcune percezioni psicologiche che non si possono escludere dalla sua intelligen za. Ci sono emozioni morali di «Ilprimo durante lascoltandpresi a am della Dante che muovono da una esperienza precisa: la tentazione, la consumazione colpa». Lei sta crociani? un genio parlando dei critici «Sì, ma Croce resta Certe cose, a me, le ha fatte capire. Io non sopporto i suoi allievi: tutti quei testi fatti di "temperie", di "scaturigini", scritti in un italiano curiale remoto dalla Commedia. Dimenticano la virilità di Dante, parlano di Dante col linguaggio del Petrarca. «In Dante c'è stata la spiritualiz-. zazione del corpo e la corpificazione dello spirito. Tutto si compie nella resurrezione della carne». Questa è un'espressione religiosa. Si può entrare nello spirito di Dante senza essere credenti? «Sì, è possibile, ci sono grandissimi dantisti che non credono. Si può non dare il minimo credito alla favola, resta una ammirazione sconfinata per il congegno linguistico. Ma io mi sono accorto che, per il mio lavoro, era indispensabile accettare la finzione. E la finzione di Dante, come dice Singleton, consiste nell'assunto di non essere una finzione. Chi legge la Divina Commedia deve credere in Dio quanto chi legge Amleto deve credere in Amleto. Il lettore deve accettare l'ipotesi teologica come un orizzonte di cultura nutrientissimo, anche se caso per caso, e pure nel mio caso, certi articoli di fede vengono trascritti in un orizzonte cultura-: le diverso, che è quello nostro».. Questa esperienza l'ha cam- biata? «Più o meno come è cambiato Dante nello scrivere la Divina Commedia». Che cosa si proponeva di ottenere da questo lavoro? «Volevo scrivere un libro che avrei amato avere a 18 anni, nella speranza che un diciot tenne di oggi sia indotto a leg gerlo». E pensa di esserci riuscito? «Spero fondatamente di sì, per quel che io posso. Se fossi più bravo, avrei ottenuto di più». L'esperienza della lettura ra diofonica sembra dargli ragione. La Divina Commedia di Sermonti ha fatto salire l'a scolto, ha provocato migliaia di lettere, da ogni gruppo so ciale: «Hanno scritto professo ri di liceo e studenti, falegnami di Venezia, librai di Bologna, casalinghe, e anche qualche pazzo. Un giorno, a Milano, per la presentazione dell'Inferno, sono venuti da me alcuni ascoltatori arrivati dalla prò vincia: artigiani, operai. Vole vano discutere di metrica; e mi hanno fatto alcuni appunti sulla lettura esatta. Ne sono orgoglioso». Scrive Sermonti, nel com mento del ventitreesimo canto del Paradiso: «Nessun dantista è ancora stato nel regno dei cieli». Lei crede nell'inferno? «No». E nel paradiso? «Sì». Perché nell'inferno no e nel paradiso sì? «Nel momento in cui io ere do c'è qualcosa che non posso ridurre a un perché. Perché non riesco a credere che non rivedrò chi ho perduto». E perché Dante colloca tanti scrittori nel Purgatorio? «Perché è il suo luogo elettivo, e perché nel Purgatorio si replica il tempo della vita, quindi si proietta, in modo più lancinante, la sua esperienza del vivere», risponde, dopo la lunga immersione nel poema, Vittorio Sermonti scrittore. Giorgio Calcagno Contini gli disse: «In ogni canto metta qualcosa che fa ridere» «Ho preferito gli studiosi stranieri agli italiani» «Ilprimo incontro a 11 anni durante la guerra: ascoltando mio padre presi a amare quei versi» Lo scrittore Vittorio Sermonti. Dopo 7 anni di lavoro ha completato il commento alla Divina Commedia. A sinistra: Dante in un affresco di Domenico di Michelino (duomo di Firenze)

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