Tumulti? No, è western

Tumulti? No, è western Tumulti? No, è western Per la legge-truffa 35 minuti di botte LA STORIA IL PARLAMENTO TROMA UMULTI, il giorno dopo. Occhiacci e mani alzate, commessi d'aula che cercano di separare fightìng Italian senators: la scenetta del leghista Tabladini, quello che ha tirato le finte banconote, e del socialista Calvi che lo sta caricando nell'aula di Palazzo Madama si rivede in una bella foto sulla prima pagina del Financial Times. Tumulti. Il presidente della Repubblica Scalfaro, che per primo ieri aveva rimesso in circolo la parola richiamandola implicitamente dai regolamenti della Camera (art. 61) e del Senato (art. 68), insiste, sia pure sotto forma di citazione letteraria. Perciò: «Il tumulto dell'assemblea farebbe dire al grande Manzoni che c'è partecipazione dei muscoli là dove l'intelligenza non giunge». Ieri aveva detto: «La discussione è la vita del Parlamento. Il tumulto no». Pur comprendendo «l'accorato commento» di Scalfaro, il presidente del Senato Spadolini spiega di non aver configurato negli incidenti di mercoledì gli estremi del termine e osserva che «se gli incidenti di ieri non sono degenerati in tumulti irresponsabili, ciò è dovuto anche alla saggia decisione di non sospendere la seduta». La questione comunque appassiona tanti altri. C'è stato tumulto? E ancora prima: cosa è tumulto? Nega che ci sia stato, per dire, il leghista Speroni. E nega due volte - «una balla colossale, manipolata dalla tv» - il suo compagno Preioni. Sdrammatizza il capo dei deputati della Rete Novelli, secondo cui proteste del genere avvengono in tutti i Parlamenti. Tumulti: definizione esagerata gli fa eco il pidiessino Pecchioli. Mentre Cossutta sembra quasi rivendicare quella protesta in aula: «Reagire contro le invereconde mistificazioni» di Amato «non era soltanto un diritto ma un sacrosanto dovere». «Sacrosanta» - stesso aggettivo - ha giudicato la contestazione il segretario del msi Fini. Sull'altro fronte, com'è ovvio, i partiti della maggioranza. Per un socialista problematico come Giugni i tumulti sono stati così smodati da risultare «un favore» alla maggioranza. Il suo compagno di partito Calvi na avanzato la proposta di sottoporre i leghisti ad antidoping. Netta la condanna liberale, attraverso l'onorevole Patuelli che l'ha voluta impreziosire con richiami agli effetti, nel Parlamento del secolo scorso, di un decreto Pelloux controfirmato dal re Umberto I. Assai veemente, tra la riprovazione superlativa e il western, la presa di posizione di Alfredo Biondi: al Senato si è rasentata la «bestialità», con masse che diventano «mandrie» e scelte «tra belati e muggiti». Più sobrio il socialista Cicchitto: questi comportamenti incivili «hanno gravemente leso il prestigio del Senato». Sempre sulla sacralità del luogo hanno insistito il senatore de De Cinque e il suo collega di partito Marco Conti che ha parlato di tumulti organizzati e proprio così - «blasfemi». Il che pare un po' troppo. Vero è che visti e ascoltati dall'alto, anzi a strapiombo per la particolarissima conforma¬ zione dell'arena, gli incidenti dell'altro ieri un po' facevano impressione. E tuttavia ritenere quello un luogo consacrato alla pace e alla cortese discussione, inviolabile e immune alle gazzarre, è un falso storico. Nell'aula del Senato, non nella bolgia di Montecitorio ancora dominata dal ricordo di Paietta, chiamato «il giaguaro» per la perizia con cui dava l'assalto ai banchi della presidenza e del governo, ecco, proprio tra i legni e i drappeggi di Palazzo Madama almeno tre generazioni di resocontisti hanno visto cose dell'altro mondo. Zuffe, risse e pugilati che al confronto, articolo 68 o non articolo 68, i tumulti di mercoledì sembrano quelli tra i bimbi del nido. Fu addirittura quasi sciolto per tumulti, il Senato, nel 1953. Dopo una seduta, la storica domenica delle Palme in cui fu votata la legge truffa, seduta di cui mai è stato approvato il verbale. E prima di quella seduta s'era dimesso, perché inorridito dai tumulti, il presidente dell'Assemblea Giuseppe Paratore. Sostituito dal povero Meuccio Ruini che poi fu colpito in testa da un pesante calamaio e portato fuori a braccia mentre esclamava, un po' suonato, «Viva l'Italia!». Altro che lancio di banconote ed esibizione di cartelli. A quel tempo la scazzottata durò 35 minuti di seguito, con tavolette scardinate che volavano, colonnine di legno e microfoni divelti, poltroncine di stenografi brandite a mo' di clava. Alla Camera avveniva e avviene più spesso, ma la battaglia più cruenta sta scritta nell'album di Palazzo Madama. E forse anche la più buffa. Nel 1984, decreto sul costo del lavoro, grappoli di senatori che si scontravano sulle gradinate, poi l'urlo terribile con cui il comunista Carmeno si lanciava su De Michelis per impossessarsi di un pacco di emendamenti. E planava a tutta velocità, l'enorme senatore proiettile umano, sull'enorme ministro. Acchiappava al volo il malloppo, ma poi qualcosa non funzionava, qualcosa che aveva che fare con la fisica, con la dinamica, e Carmeno faceva un mezzo avvitamento in aria e si schiantava in terra slogandosi, per sua fortuna, solo la caviglia. Filippo CeccareW Il socialista Calvi «Ci vorrebbe l'antidoping per i leghisti» Ma Cossutta parla di sana reazione E alla Camera tutti ricordano le imprese di Pajetta-giaguaro Al centro, la contestazione di Libertini nei confronti di Amato che ha scatenato il putiferio in Senato. Ancora poco, però, rispetto a quanto avvenne nel '53 per la leggetruffa: il presidente del Senato Meticcio Ruini (a lato) venne colpito da un calamaio

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