Un Rushdie sotto le Piramidi di Giuseppe Zaccaria
Un Rushdie sotto le Piramidi LA STORIA Un Rushdie sotto le Piramidi FIL CAIRO ORSE, il segno dei tempi che viviamo si colloca nel buio. E dal buio arriva la voce di un sepolto vivo. Uno studioso che da 14 anni è costretto a nascondersi. Uno scrittore che per aver tentato di conciliare scoramento e prospettive, delusione e democrazia, tradizione e modernità, è stato condannato a morte. Poche settimane fa, il permanere della condanna di Salman Rushdie è stato occasione di dotte, allarmate messe a punto sulla condizione mentale di due terzi del mondo. La stona di Sai'd Al Ashrawi sembra concepita per dimostrare che il peggio è cominciato prima di quanto pensassimo. Il buio è quello di un grande appartamento di Zamalek, il quartiere più elegante del Cairo: è qui che il professor Al Ashrawi vive dal 1979 la condizione di recluso. Gli inconfondibili sbaffi neri delle pesanti pieghe spiegano come quelle conine siano perennemente chiuse, a evitare che qualcuno possa prendere la mira dall'esterno. L'ascensore è comandato da un pulsante all'ultimo piano. Davanti al palazzo, nell'atrio e lungo le scale, montano la guardia gli uomini di una scorta che viene alternata ogni tre mesi, per evitare rilassamenti pericolosi. Era la fine di ottobre del 79 quando la vita del professore cambiò totalmente! In quel momento l'Occidente si preparava ad applicare il Verbo di Reagan e della signora Thatcher, in Italia il psi cominciava l'avanzata, l'Aids pareva affare di una minoranza remota e un Presidente egiziano, Anwar Sadat, sembrava destinato a inaugurare un'era di pace per il Medio Oriente. Fu esattamente allora che il professor Sai'd Al Ashrawi pensò di dire la sua sul Grande Progetto di Islamizzatone. La questione, in fondo, pareva semplice: di fronte a quanti continuavano a sostenere che la «Sharia», la legge coranica, dovesse essere base di ogni ordinamento in un Paese musulmano, Sadat aveva nominato una commissione che studiasse il problema. E ai saggi riuniti in consesso il professor Al Ashrawi, giudice dell'Alta Corte (la Cassazione egiziana), si era limitato a esporre alcune perplessità. A rivisitarle, oggi quelle obiezioni parrebbero banali non fosse per il fatto che, mentre parliamo, il telefono del buio antro di Zamalek squilla in continuazione. Una delle chiamate è da New York. Dal cuore del grande potere, improvvisamente vulnerato, «The Voice of America» si cala nel buio del rifugio cairota per chiedere a questa sorta di profeta dimenticato una spiegazione, un commento, qualcosa che possa far fronte alle sinistre risonanze dell'attentato al World Trade Center e all'influenza di Rahman, il nuovo Khomeini. «Rushdie? Spero mi perdonerà se non ne voglio parlare...». In questo roccioso sessantenne, fra le suscettibilità accentuate da 14 anni di semiprigionia, questa è comprensibile. Fermo restando che «nessuno può mai essere persegui tato o condannato per quel che legittimamente pensa o scrive», l'idea che lo scrittore anglo-indiano si sia trasformato in un caso viven te mentre la sua vicenda è come sepolta, provoca in Sai'd Al Ashrawi un fastidio evidente. Spesso la fama del perseguitato deriva tutta dal peso di chi lancia l'anatema. Rushdie fu condannato da Khomeini in persona. Al Giuseppe Zaccaria CONTINUA A PAGINA 2 PRIMA COLONNA
Luoghi citati: Italia, Medio Oriente, New York
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