Un giornata dentro San Vittore tra dolore, silenzi e vergogna di Mario Gozzini

Un giornata dentro San Vittore tra dolore, silenzi e vergogna Nel vecchio carcere di piazza Filangieri con duemila detenuti, Vip e comparse di Tangentopoli Un giornata dentro San Vittore tra dolore, silenzi e vergogna VIAGGIO DI UN CRONISTA MILANO. Il vecchio cronista e il carcere: potrebbe essere il titolo di questo racconto. Il racconto d'un viaggio, breve eppure interminabile. A San Vittore. Dalle sette del mattino alle due dopo mezzogiorno. Dirò subito che chi s'aspettasse un racconto ad effetto rimarrebbe deluso. Chi, come me, volesse tentare di capire il carcere, chi avesse voglia di ascoltare gli abitanti di San Vittore mi legga pure. Con pazienza. Al secondo squillo una educata voce femminile flauta: «Casa circondariale di Milano, vi preghiamo di attendere». La casa circondariale è San Vittore, il carcere. Allorché irrompe aspro nel telefono l'accento avellinese del centralinista te ne rendi subito conto. Sono il tal dei tali, vorrei parlare col dottor Pagano, il direttore. Rimanga in linea, replica severo l'avellinese e di colpo una musica drammatica, bella ti saccheggia: Mozart, sinfonia n. 41, «Jupiter». E' un algido mattino chiaro, il tassista sembra di buon umore, ma quando gli dò l'indirizzo: ((Avvocato?», chiede. Mummm. «Detenuto comune o politico?», incalza. Comune, mentisco saggiamente poiché lui: «Lo sa che le dico, che quelli, i politici, li appenderei per i piedi. Gli altri, invece, mi fanno pena e basta». Per i piedi?, arrischio. «Sissignore per i piedi». Come a piazzale Loreto?, oso. «Bravo, l'ha proprio detto». Il portone di piazza Filangieri 2 è tale e quale ossessivamente ce lo mostra, tutti i giorni, la tv. Mentre, superato un monumentale poliziotto penitenziario (non si chiamano più agenti di custodia) col mitra imbracciato mi accingo a varcare il secondo sbarramento, una sorta di cancello beige che s'apredi sbieco, eccomi costretto a starne alla larga. Irrompe lampeggiando una automobile cupa, si intravede la nuca dell'ingegner Cagliari, presidente dell'Eni. In senso inverso, a una manciata di secondi, passa Enzo Carra, il giornalista già portavoce di Forlani; è a bordo di una automobile fremente come una pantera. Ancora lucchettoni ai polsi di Carra. Va a Palazzo di Giustizia, sa che la sua condizione di detenuto è finita, comunque vadano le cose. Soni de. (Carra lo vedrò la sera, al momento amaro della sentenza, nell'aula massima del Palazzo di Giù stizia oppressa da un gabbione littorio come nelle vecchie copertine di Beltrame). Il direttore di San Vittore, Luigi Pagano, è un signore di Torre del Greco, minuto, gentile. Profonde occhiaie bistrano i suoi occhi intelligenti. E' incredibilmente gio vine pel lavoro che fa: ha trenta nove anni. Ma perché un giovine intellettuale del Sud sceglie di fare un lavoro così difficile? ((Appunto perché è difficile», risponde. S'è specializzato, subito dopo la lau rea in Legge, con il prof. Paolella, in criminologia. Poi il concorso, la carriera: quattordici anni da Pia nosa a Nuoro, Asinara, Taranto e infine Milano. «Tangentopoli ha svilito il carcere, lo ha spettacola rizzato. I problemi reali son rima sti ancora una volta fuori. I problemi reali sono i cosiddetti extra comunitari, i tossicodipendenti» Il decreto che avrebbe dovuto modificare la legge Martelli non è operativo sicché le carceri scop piano di tossicomani che rischia no di perdersi definitivamente C'è ancora una pietra sul cuore di chi crede nella possibilità di recu perare il carcerato: lo sfarinarsi della legge Gozzini «che aveva re so trasparente la galera». Luigi Pagano fa parte della pattuglia riformista capitanata da Niccolò Amato: dal 1983 al 1989-90 s'è fatto molto per umanizzare il car cere, soprattutto s'è pensato di aiutare il detenuto a reinserirsi nella società. Ma una sorta di stop sembra aver messo tutto in di scussione. «La verità è che una riforma carceraria presuppone un minimo di rischio. Come è possibile valutare il raggiunto grado di adatta bilità alla realtà sociale di una persona se non mettendola, sub conditione, coi dovuti controlli, in libertà? Il grande equivoco in cui si sprofonda è quello del carcere pena assoluta. E invece con uno sforzo di fantasia bisognerebbe pensare a pene alternative, diver se dalla galera». Luigi Pagano è sposato, ha due bambini piccoli, la sua casa è nel compound di San Vittore. «Sono un pessimo padre e marito - dice con un sorriso triste il carcere mi assorbe tutto. M'accorgo con sgomento*, a volte, che mentre sto parlando con mia moglie o giuocando coi figlioletti, l'altra metà del mio cervello, di me stesso, pensa al carcere. Al fatto che non abbiamo posto per tutti: questo è un carcere costruito nel 1879, può ospitare al massimo 800 detenuti: ce ne sono 2200. Sicché siamo costretti a mettere gli "isolati" in due per cella, a farcire di brande celle per due... disturbando i topi. Devo far forza sui sentimenti per conservare un minimo di distacco, come il chirurgo al tavolo operatorio. L'altro giorno, nel pomeriggio, sono andato in rotonda (il bulbo del carcere dal quale si partono i cosiddetti bracci). C'era un silenzio assoluto. Eppure io sentivo la presenza muta di 2200 reclusi. Il loro respirare appresso ai pensieri. Dicono che l'essere umano si adatta a tutto. E' vero, ma rimane l'offesa alla sua dignità, la violenza all'uomo. E' giusto, certamente, riflettevo, scontare una pena ma con un minimo di dignità. Mi sembra dolorosamente assurdo che nella grande Milano mitteleuropea ci sia un pezzo di mondo tanto degradato». E tuttavia San Vittore non è un girone infernale come certe carceri sudamericane o turche, che ho visitato. Non c'è qui quel tanfo orrendo di latrina e acido fenico, di rancio e sudore e lacrime. I poliziotti penitenziari indossano divise ben stirate, camicie azzurrine fresche di bucato. Danno del lei ai detenuti. Un giovine appuntato mi accompagna nel «penale», dov'è la redazione di Magazine 2, il giornale edito da una cooperativa di detenuti. «E' il vecchio Giornale di San Vittore», mi spiega uno dei redattori, William Mamone. «Lo abbiamo sottotitolato Magazine 2 perché a Milano per indicare San Vittore dicono "al due", essendo al numero 2 di piazza Fi- langieri. Magazine in inglese vuol dire anche magazzeno-polveriera. E in realtà siamo in una Santa Barbara. Fortunatamente il popolo dei carcerati è ragionevole. Ci adattiamo all'emergenza, al superaffollamento perché sappiamo che il momento è grave, che il Paese è in crisi. Sicché guai se protestassimo. No, i carcerati non vogliono lo sfascio. Chi sta fuori, però, dovrebbe rendersi conto che uccidere - come si sta facendo -, la legge Gozzini è lo stesso che uccidere la speranza». William Mamone ha in fatti scontato tutti i dieci anni della sua pena. Stava nell'ambiente dello spettacolo, dove, dice, ci si carica oltre misura e la coca diventa, qualche volta, ineludibile. «Così è stato per me, quando ho aperto gli occhi m'ero beccato dieci anni». Adesso lotta per scongiurare l'estradizione negli Usa, per spaccio. Con calma brutale mi dice che mandarlo «laggiù» sarebbe lo stesso che ucciderlo. E' un bell'uomo coi capelli strinati di bianco, muove bene le mani curate. «Nel 1981 ho trascorso tre mesi e mezzo nel "L. A. Country Jail" (il carcere di Los Angeles). Quarantaduemila detenuti, il 99 per cento colored people. Ebbene, posso dirle che se la galera italiana è un purgatorio che dovrebbe, ma non sa, rieducare, quella americana è l'inferno sulla terra. La nostra è forse una ipocrisia, quella americana una vendetta. Sei sottomesso a poliziotti sadici, sei trattato come un animale. Nelle porte delle celle han situato i "bocchini", gli spioncini, a mezzo metro da terra e non a caso: per parlare con la guardia devi inginocchiarti». William Mamone ha girato un po' tutte le carceri italiane, da tre anni è a San Vittore e fa parte della redazione di Magazine 2. «Noi redattori vogliamo, disperatamente voghamo, stabilire un collegamento tra chi sta fuori e chi sta dentro. Ci spaventa il futuro poiché vediamo che la società degli uomini liberi è prigioniera di vizi che conducono al disastro. Che mondo ci aspetta là fuori, ci sarà pace, ci sarà amore, ci sarà lavoro per noi?». E i politici, come li giudicate quelli di Tangentopoli, domando. ((A San Vittore sono trenta in tutto. Io penso che il Palazzo, per usare la dizione di Pasolini, ha capito di aver perso la guerra. E tuttavia sa che se si arrende senza condizioni non avrà misericordia. Sa che se abbandona le postazioni si aprono gli armadi. E' una battaglia di retroguardia quella dei politici. Ma questa bufera che voi giornalisti liberi avete enfatizzato facendola diventare un tifone assassino, questa bufera forse scoperchierà i sepolcri dove giacciono i misteri d'Italia, le grandi stragi: da piazza Fontana a Ustica, da Capaci a via D'Amelio». A mano a mano che prosegue il viaggio nel carcere, sempre più forte entra nel mio cuore la pena e il vecchio cronista trascorre dall'imbarazzo alla vergogna. Ecco, ho l'impressione di violare la privacy di queste persone che stanno venti ore recluse, in sei nelle piccole celle pensate per due persone. Certo il «penale» paradossalmente è il territorio meno difficile da attraversare nonostante ci sia gente che uscirà nel 2006. Come Osvaldo Monopoli, in galera dal 1975, un'evasione, tante prigioni. Adesso spera di starsene buono a San Vittore perché «qui resiste la Gozzini». Giuoca al calcio, terzino sinistro; da sempre tifoso del Milan, preferisce Capello a Sacchi. Organizza tornei di calcetto. «Lo sa che abbiamo avuto con noi Tacconi, Rivera, Ciotti, la Ruta?». Una volta, dice, il carcere non era così sopportabile: era vera galera, dovevi invocare il «superiore», ti davano del tu, eri una immonda pezza da piedi. «Oggi ti rispettano come uomo, anche se ti sorvegliano come individuo». Accordi festosi di chitarra esplodono da mia cella che ha il cancelletto aperto. Due tipi allegri strimpellano (bene) «La mia banda suona il rock» di Ivano Fossati. Gli ospiti della cella sono ((trentenni», cioè stanno scontando trent'anni. A uno ne mancano dieci per finire, a un altro tre. Lo dicono sereni, il mio imbarazzo sembra divertirli. Nel reparto, vastissimo, che accoglie i tossicomani, parlo con G. Biondo, magro, fine. E' dentro per la seconda volta, sempre rapina. Spera di scontare i due anni in una comunità terapeutica. «Mi affascina don Mazzi - confessa -, perché "non voglio convertirti", ci dice. "Se vuoi una mano vieni con me, altrimenti arrivederci". E' un discorso banale ma stupendo. Io ho bisogno di questo aiuto». Adesso parla M., ha il viso color delle meduse morte e occhi che bruciano. «Sono in terapia, qui ci sanno fare. Però c'è un guaio. Terribile. Se sei "positivo" non puoi nasconderlo più, in galera ti fanno il prelievo e due minuti dopo lo sanno tutti. E' un guaio perché non piace a nessuno convivere con un sieropositivo che, sbagliando, credono sia appestato dall'Aids». Nel braccio dei cosiddetti «normali» incontro il Marocchino. (Tutti gli extracomunitari sono «marocchini», in carcere). E' di Fes, fra trenta giorni finisce i dieci mesi. Lavora nel laboratorio di pelletteria. «Lo sa che guadagno un milione al mese? Porterò a casa un bel gruzzolo. M'è andata bene: mangio tre volte al giorno gratis, ho un giaciglio, lavoro, metto da parte soldi buoni (...). Nessuno mi sfotte se prego cinque volte al giorno, se digiuno ora che è Ramadam. Allahu àkbar, Dio è il più grande, è proprio così, credimi fratello». S'apre una porta e se ne chiude un'altra, lo scatto è contemporaneo. A guisa di prestidigitatori gli agenti fanno comparire chiavi robuste che subito spariscono. Il carcere è tutto eguale epperò il sesto braccio è diverso dagli altri. Lo opprime un vasto silenzio che s'appende all'anima. Qui stanno in isolamento quelli di «mani pulite». Cancelletti e porte blindate murano celle microscopiche. Sempre a causa del sovraffollamento, ad ogni «politico» han dato un compagno di estrazione diversa, diremo. Per esempio, al direttore finanziario Fiat, Mattioli, fa compagnia un omicida, per altro una distinta persona. La cella del signor Greganti, ex comunista, è vuota. «E' sotto in terrogatorio da lui». Lui chi? «Ma Di Pietro, diamine». Non posso ve dere nessuno degli «isolati», né parlargli. Distribuito il pasto (pen nette al pomodoro, carne, frutta), compare ancora una volta una chiave e cancelletto e porta blin data si chiudono col solito atroce fragore di ferri. Il rumore antico, perenne del carcere. Al Centro Clinico, Manzi è «l'ospite d'onore», sennonché oggi «il dottor Manzi sta incazzato» e non vuol vedere nessuno, spiega un infermiere. Ancora un cancello. Quanti sono non lo saprò mai, l'apri e chiudi martella il cervello, tutto è eguale e sempre diverso, per andare avanti bisogna vincere un senso di nausea. Il fatto è che ti senti un intruso: i prigionieri giacciono sui letti a castello, in pigiama o vestiti, catafratti in un sepolcrale silenzio minaccioso. Quello col mefisto rosso in testa è un irriducibile delle Bierre, forse non uscirà mai perché «è un pesce piccolo». Il pesce piccolo non vuole parlare, tantomeno con un giornalista borghese. «Come vuole lei, ci scusi», risponde l'agente che mi accompagna. (E' sempre lo stesso, eppure è cambiato di braccio in braccio). «Dottò», mi dice un napolitano sbruffone ma non antipatico, uno che entra ed esce dalla galera. «Dottò, il carcere è brutto, adesso poi c'è troppa gente, una volta trovavo sempre la stessa cella. Ma sono solo nove mesi, dottò. Maradona è sempre Maradona». Questo discorso l'ho sentito qui, a San Vittore, oppure a Sorrento? «E' stanco, vuole un caffè?», m'interroga premuroso l'agente, ma grazie al cielo mi viene incontro un sorriso. Meglio: un uomo-sorriso. E' don Giorgio, il cappellano. Sorride da trentasette anni, tutti passati a San Vittore. «Il sorriso è il mio grimaldello», sorride. Ma le sue parole sono pietre. «Ci chiediamo se siano accettabili da chi vuol difendere la totalità della vita dell'uomo, la dignità della persona e la sua libertà democratica nello Stato, quelle leggi che esigono la probatio diabolica, che ammettono la retroattività, che sembrano favorire in modo esasperato la "collaborazione"; che sembrano voler permettere che lo Stato italiano si trasformi in Stato di polizia, che sembrano non rispettare i ruoli e gli ambiti dei diversi poteri statali: leggi che si potrebbero accettare forse soltanto come eccezionali (...) Come possiamo in quanto cristiani supinamente accettare il carcere quando in concreto è solo strumento di pena e di castigo?». Da vecchio cronista ho scarpinato per il mondo. Ho fatto (da reporter) guerre e rivoluzioni, ho incontrato regnanti e miserabili, ho incontrato uomini e mascalzoni. Ho cercato di conoscere l'uomo, ho imparato a temerlo. Con questo viaggio a San Vittore ho forse imparato ad amarlo. Igor Man «L'apri e chiudi dei cancelli martella il cervello, per andare avanti bisogna vincere la nausea» «Ormai il Palazzo ha capito di aver perso la sua guerra ma noi non vogliamo lo sfascio Nelle foto da sinistra: un interno di San Vittore e il portone del carcere milanese * Un detenuto vive in cella con un uccellino in gabbia. Sopra: Di Pietro e (a destra) Mario Gozzini