«Don Totò», una dittatura costruita sul sangue

«Don Totò», una dittatura costruita sul sangue «Don Totò», una dittatura costruita sul sangue RETROSCENA GLI ORRORI ROMA I N quella riunione alla Favali rella, Salvatore Riina doveva avere una faccia diversa da quella un po' strafottente e un po' dimessa mostrata nei giorni scorsi alla corte d'assise e in tv. Era il 30 novembre 1982, e nella sua tenuta Michele Greco aveva radunato più di cinquanta invitati; tra questi il gotha di Cosa Nostra, carnefici pronti ad uccidere, vittime già designate. Venne servito un lauto pranzo, e dopo il caffè gli ospiti si sparpagliarono tra la casa e i giardini. Ad un tratto i killer entrarono in azione: Rosario Riccobono - capo del «mandamento» di Partanna Mondello - si stava addormentando su una poltrona, e non s'accorse di niente quando gli si avvicinarono Giacomo Giuseppe Gambino detto «u tignusu», Antonino Madonia e Giuseppe Greco detto «scarpa». Lo strangolarono senza che Riccobono potesse reagire, con uno degli assassini che sibilava: «Saro, qui finisce la tua storia». Quello stesso giorno, lì alla Favarella, furono uccisi anche Salvatore Micalizzi, Vincenzo Cannella, Salvatore Scaglione, Salvatore Cosenza, Carlo Savoca e Giuseppe Lauricella. In serata, a Palermo, caddero altri uomini d'onore legati a Riccobono. Questo perché - ha raccontato il pentito Gaspare Mutolo ai magistrati - «il Riccobono si era via via distaccato dal Rima, dopo esserne stato molto amico, e la famiglia di Partanna Mondello era l'unica in Cosa Nostra sostanzialmente indenne da "infiltrati" di Riina, e costituiva quindi per lui e per i suoi alleati un grave e permanente pericolo». Mutolo, già uomo di fiducia di Riccobono, seppe queste cose attraverso indàgini «caute» condotte all'interno della mafia vincente, per evitare con troppe domande o propositi di vendetta di fare la fine del suo ex boss e di altri mafiosi giudicati da Riina scomodi o troppo curiosi. Di molti omicidi è stato possibile individuare mandanti ed esecutori grazie alle dichiarazioni degli ultimi pentiti - Gaspare Mutolo, Giuseppe Marchese, Giovanni Drago - e al lavoro degli uomini della Dia guidati dal vi- cedirettore vicario Gianni De Gennaro. Sono tutti gradini della sanguinosa scalata di «don Totò» verso la dittatura personale dentro Cosa Nostra. Sull'attendibilità di Gaspare Mutolo - definito sarcasticamente da Riina «un bravissimo droghiere» -, giudici e investigatori hanno pochi dubbi. Il pentito si è autoaccusato di molti omicidi senza che ne fosse nemmeno sospettato. Con le sue confessioni è stato ricostruito, ad esempio, l'assassinio di Santo Inzerillo e Calogero Di Maggio, avvenuto la sera del 26 maggio '81: «Dopo un po' sopraggiunsero Di Maggio e Inzerillo Santo, che apparve sin dall'inizio assai nervoso e turbato... Ripetutamente gridò che voleva sapere chi aveva ucciso suo fratello (Salvatore Inzerillo, ammazzato per ordine di Riina 15 giorni prima, ndr), scandendo le parole e battendo i pugni su una scrivania... Quando ni dato il segnale il Mutolo, il Davi, il Ganci e lo Scaglione afferrarono per le braccia il Di Maggio, mentre Rotolo Antonino gli mise una cordicella al collo e lo strangolò. Contemporaneamente, mentre altri lo te¬ nevano fermo, Madonia Antonino strangolò pure l'Inzerillo. I due uccisi vennero quindi spogliati, "incaprettati", posti in due grandi sacchi per l'immondizia e caricati nel portabagagli di due automobili "pulite". Le due vetture con i cadaveri, e lo stesso Mutolo col Riccobono sulla vettura blindata di quest'ultimo, si recarono quindi nella proprietà di certo "Tatuneddu"... Della soppressione dei cadaveri, che furono bruciati sulla griglia, si occupò, come in numerosi altri casi, il "Tatuneddu"». Anche Giuseppe Marchese che Riina dice di non conoscere, mentre questi ha descritto per filo e per segno la villa del boss con tanto di parco-giochi per i suoi bambini - ha ammesso di aver partecipato a numerosi omicidi, tra cui quello di Salvatore Inzerillo. Ed ha raccontato episodi agghiaccianti di vita mafiosa, come l'eliminazione per «lupara bianca» di Antonino Grado e Francesco Mafara, legati a Salvatore Contorno. Scrivono i magistrati: «Arrivati nella proprietà dei Prestifilippo (a Ciaculli, ndr), in prossimità di una grande vasca per la raccolta del¬ le acque, Giuseppe Marchese vide suo zio Filippo, Greco Giuseppe "scarpa", PrestifìHppo Mario, Pullara Giovanbattista, Lucchese Giuseppe e Greco Giuseppe "u minnuni" intenti a conversare tra loro, mentre poco distanti giacevano i corpi di Grado Antonino e Mafara Franco legati col sistema "dell'incaprettamento", con ancora al collo le corde con le quali erano stati strangolati. U Giuseppe ed il Cucuzza si avvicinarono ai presenti mentre questi, con fare scherzoso, commentavano la reazione del Mafara che, piangendo, aveva pregato Marchese Filippo, del quale era amico, di risparmiarlo. Il Cucuzza si inserì in questa discussione scherzosa, dicendo: "Mi sono perso il meglio". Inoltre Greco Giuseppe "scarpa" fece degli apprezzamenti sul comportamento di Grado evidenziando la dignità di quest'ultimo, che aveva invitato il Mafara a mantenere anche in tale circostanza un atteggiamento degno di un uomo d'onore». Molti degli assassini riuniti quel giorno a Ciaculli furono a loro volta assassinati: da Filippo Marchese a «Scarpa», a Mario Prestifilippo, caduti sotto la scure inesorabile di Riina che non voleva intralci. Una guerra condotta dentro l'organizzazione, ma anche fuori quando si è trattato di far rispettare le regole mafiose. Come è accaduto con Libero Grassi, l'imprenditore ammazzato il 29 agosto 1991 a Palermo perché s'era rifiutato di pagare il «pizzo». Di quel delitto parlarono, in carcere, Giuseppe Marchese e Giuseppe Madonia, figlio di Francesco Madonia, messo in isolamento nel centro clinico del carcere di Pisa perché capo del mandamento nel cui territorio Grassi era stato ucciso. «Avendogli quindi il Marchese domandato notizie del padre e fatto riferimento all'omicidio del Grassi - scrivono i magistrati - il Madonia Giuseppe gli aveva risposto testualmente: Pazienza, passerà anche questa; ma se a questo cornuto non gli si sparava, tutti gli altri avrebbero seguito il suo stesso esempio di ribellarsi. Tocca farsi sentire ogni tanto"». I pentiti hanno permesso di ricostruire come il capoclan eliminava i nemici Le condanne a morte erano decise nella supervilla di Michele Greco Sopra Totò Riina, di fianco Michele Greco, Padrini di Cosa Nostra

Luoghi citati: Grado, Palermo, Partanna, Roma