Conso: resto, ma potrei andarmene

Conso: resto, ma potrei andarmene Intervista con il Guardasigilli: «Ho ancora impegni da onorare, non farlo equivale a tradirli» Conso: resto, ma potrei andarmene «Meno tensione, grazie Scalfaro» TORINO. Giovanni Conso spegne il telefonino, lo consegna a un agente della scorta e senza togliersi il cappotto si siede sul divano nel piccolo ufficio di Ernesto Olivero, animatore del Sermig. «Mi hanno appena informato da Roma che le agenzie di stampa annunciano le mie dimissioni da ministro della Giustizia. E' un equivoco. Io, per adesso, resto al mio posto». Ma lei ai giornalisti non ha detto che «così non si può lavorare» e «sto pensando di dimettermi»? «La mia frase era un'altra, si vede che non l'hanno ascoltata con attenzione. Io mi aspettavo la domanda, pensi che mi ero preparato una replica ben articolata. Me l'ero anche scritta per impararla a memoria. Adesso gliela cerco». Dalle tasche del cappotto del ministro esce un piccolo foglio a quadretti, riempito con una grafia minuta, costellata qua e là di correzioni. «Eccola. Quando mi hanno riferito che Cossiga mi invitava a lasciare il posto, ho risposto così: in verità, si tratta di una ipotesi su cui sto meditando per conto mio già da più di una settimana. Dovrei comunque informare prima chi di dovere. Intanto, vi sono, però, alcuni appuntamenti prefissati che non posso non onorare. Non onorarli equivarrebbe a tradirli. Innanzitutto ho preso solennemente l'impegno davanti all'aula della Camera dei deputati di completare nel modo più esatto possibile, entro questa settimana, la ricostruzione delle vicende relative all'uso delle manette per i detenuti portati in giudizio in tribunale. In secondo luogo mi devo occupare dell'adozione di alcune improcrastinabili misure per far fronte all'emergenza carceraria. Infine mi spetta un incontro conclusivo con la commissione Antimafia per le impellenti esigenze della superprocura nazionale». Che cosa risponde a Cossiga, che definisce il governo una «toppa continua» in ostaggio di Craxi e che, evocando Facta, sollecita lei e Amato ad andarsene? «Posso rispondere soltanto con la promessa che mi rimetterò a lavorare sui provvedimenti anti-tangenti che ho portato nel Consiglio dei ministri. Cossiga è un amico, le sue affermazioni mi hanno procurato un grande dispiacere. E sono state soprattutto una sorpresa, perché al telefono con me non ha detto le parole che ho poi letto sulle agenzie. E' vero, mi occupo di politica da poco tempo, ma non credo di essere uno sprovveduto. Ho superato la boa dei settantanni, ho sufficiente esperienza per non lasciarmi infinocchiare. Nessuno, poi, deve suggerirmi i comportamenti da tenere. Io mi dimetto se mi chiede di farlo Amato oppure Scalfaro, oppure il Parlamento. Non prendo ordini da nessun altro». Però, lei ammette che all'ipotesi delle dimissioni rifletteva da tempo. Perché? «Ho cominciato a pensarci quando ho visto che le cose non andavano nella direzione che io auspicavo. Lo ripeterò fino alla nausea: io non volevo, non voglio il colpo di spugna per chi ha violato la legge sul finanziamento dei partiti. Per me era inaccettabile il provvedimento approvato dal Senato... Poi sono riuscito a recuperare posizioni, sono riuscito a far passare qualcuno dalla mia parte. E devo dire che anche Amato è stato con me sin dall'inizio». Ma Scalfaro ha bloccato il decreto. Non l'amareggia questa sconfitta? «No, io ringrazio il presidente della Repubblica. Il suo intervento è stato positivo. E' servito a raffreddare la tensione che aveva ormai raggiunto livelli inaccettabili. Ma sa, dietro alla bufera che si è scatenata, c'è qualcosa..un movimento...». Che cosa esattamente? «Io un'idea precisa ce l'ho, ma adesso non posso spiegare nulla. Verrà il giorno in cui si capiranno molte cose». Però l'opinione pubblica è contro il governo. Il presidente del Consiglio è stato contestato dagli studenti della Bocconi, la gente non è stata tenera neppure con lei. «Sì, ma dietro all'opinione pubblica ci sono i giornali, i loro titoli, molta disinformazione. E c'è dell'altro... Io sono più tranquillo oggi, in questa tempesta, che dieci giorni fa. Quello che il Consiglio dei ministri ha approvato non è tutto il pacchetto Conso. Sulla depenalizzazione dei reati riguardanti il finanziamento dei partiti c'è stato un lungo confronto, un vivace dibattito. D'altra parte è impensabile che io andassi lì e dicessi: si fa così e basta. Da soli non si governa, da soli non si fa nulla. E' la lezione che ho avuto dalla vita, dalle mie esperienze di avvocato e di presidente della Corte costituzionale». Non crede che il colpo mortale al decreto sia venuto dal documento firmato domenica dai giudici di Milano? i «Forse sì. Ma non voglio parlare di quel comunicato. L'unica cosa che mi ha lasciato perplesso è stata quella frase...Come diceva? Ah, sì: "paralisi totale delle indagini". Basta, non voglio aggiungere altro». Eppure quel decreto è sembrato un blitz contro i magistrati di «Mani pulite». «Assolutamente falso. Questa vicenda è piena di falsità. Quelle norme, sul piano sanzionatorio per esempio, potevano essere riempite in futuro, completate, migliorate. E io dico a Borrelli, a Di Pietro, a Colombo: continuate a fare il vostro lavoro perché lo state facendo benissimo. La nuova normativa non va vista solo in un articolo, va inquadrata in un sistema. Questo sistema prevede che reati come la corruzione e la concussione collegati ad illeciti depenalizzati continuino a rimanere nelle mani dell'autorità giudiziaria. Altro che colpo di spugna!». Dario Creste-Dina «Non volevo il colpo di spugna Tutto rimarrà in mano ai giudici Ci sono manovre dietro a tutta questa bufera» Bit, A destra il ministro di Grazia e Giustizia, Giovanni Conso Di fianco il procuratore della Repubblica aggiunto di Milano, Gerardo D'Ambrosio

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