8 marzo: guai a Staino se dice «maiala» di Alberto Bevilacqua

Ravera: non scherzate sulle donne, siamo l'alternativa 8 marzo: guai a Staino se dice «maiala» I HE succede? L'ossessione I ' americana del «politiI cally correct» (della corI i rettezza politica che poi \Ai vorrebbe dire moralità) sta arrivando anche da noi? Quell'impegno di dare a ciascuno il suo in un rispetto per fatti, persone e cose che è sacrosanto ma che al di là dell'oceano sembra toccare livelli maniacali, rischia di condizionare la nostra vita quotidiana e persino quella dell'arte? Attenzione a due piccoli segnali di ieri e ierlaltro. Primo: le donne dell'Unicoop di Firenze insorgono perché uno dei «loro», Sergio Staino, vuole mettere in scena l'8 marzo uno spettacolino-omaggio alla «categoria» intitolato: Brutta maiala m'hai rubato il cor. Non lo può fare neppure un umorista al di sopra di ogni sospetto come il padre di Bobo: i nomi sono nomi, guai a chi ci scherza su, anche nel postfemminismo. «Forse si è esagerato, ma gli "squadroni rosa" devono più che mai montare la guardia - finisce per approvare Lidia Ravera -, le donne vivono un nuovo momento di esasperazione per la carica di misoginia di ritorno che è nell'aria». Secondo: il critico dell'Unità Grazia Cherchi «accusa» il critico del Corriere della Sera Luigi Bai dacci di aver dato una lettura quasi esclusivamente politica del romanzo di Clara Sereni II gioco dei Regni, saga d'una grande famiglia comunista nel dramma dello stalinismo, e di aver giudicato addirittura «banali» pagine di notevole impatto ideologico. Altri «input» di segno analogo erano già arrivati: esempio clamoroso quello di Ceronetti tacciato di cinismo politico per detto no all'invito per un convegno napoletano. Ceronetti dichiarò che laggiù non si sarebbe «sentito al sicuro», ritenendo comunque il viaggio una fatica alla quale un intellettuale come lui, slegato dal potere, non era tenuto. Per il loro valore simbolico tra eccessi esilaranti, bisogna poi registrare le prese di posizione di certi animalisti che vorrebbero un rigido «politically correct» verso i quadrupedi... Che peso possono avere «messaggi» del genere? Senza aspettare il verbo Usa, nel vecchio mondo si è discusso per decenni, dal '68 in poi, su una sorta di «politically correct»: partendo dai grandi interrogativi per finire alle domande spicciole non meno fondamentali. Altra cosa, tutta- via, e cercare o invocare una sorta di controllo o di autocontrollo sulle idee e, soprattutto, sul modo di esperimerle. Ecco perché gli episodi più recenti evocano qualche «fantasma». Ferdinando Adornato non mostra eccessiva ansia: «Il "politically correct" in Italia non esiste. Noi ci limitiamo a voler chiamare il netturbino "operatore ecologico"; la schermaglia verte principalmente sul "buon gusto"; siamo ben lontani dai fondamentalismi di marca americana, dai riti che finiscono per intaccare la libertà individuale. Certo, anch'io penso a un problema di etica: è di questo, non di fanatismi, che il nostro Paese ha urgente bisogno». Un atteggiamento «politically correct» sarebbe da auspicare anche da noi, ma non in letteratura o nell'arte. Piuttosto nel giornalismo, alla tv: per Stefano Benni è lì il grande gap di oggi, tra impegno e morale. «Mentre la responsabilità dello scrittore, dell'artista, è implicita nel suo stesso lavoro, inscindibile, e ogni errore viene pagato di persona, la carta stampata e il video sono il régno della superficialità, una sorta di terra di nessuno dove non si ha più tempo né voglia di valutare gli effetti di ciò che viene affermato, dove nessuno più interviene a correggere, a moderare. Un inferno di sventatezza». Esiste qualcosa di più pericoloso? Secando Alfonso Berardinelli è l'allarmismo. «Meglio evitare di accendere micce sulla possibilità che anche in Italia si diffonda un "politically correct". Altrimenti si comincerà a censurare ogni critica con il pretesto che criticare vuol dire censurare. Invece, diventerebbe censura solo nel caso che dietro al giudizio vi fosse un gruppo, un movimento, un partito che trasforma la critica in minacce d'altro genere. Il principio da seguire potrebbe essere questo: non cercare di rendere più potente il pensiero con altri mezzi. Persino alzare troppo la voce è un po' volgare». Alberto Bevilacqua è d'accordo con Lidia Ravera, teme che uno dei grandi pericoli per l'Europa sia oggi proprio la misoginia. «Questo vale in letteratura: dove si continua a ignorare che esistono grandi scrittrici e che i libri vengono letti e capiti soprattutto dalle donne. Vale sempre più nella società postindustriale, a dispetto delle apparenze. Cresce con il crescere delle paure maschili, con gli interventi sempre più massicci della Chiesa. Le responsabilità sono enormi». A Lidia Ravera lo spazio per concludere con una (serissima) provocazione: «Un "politically correct" avrebbe senso oggi in Italia in un solo caso: se uno dei pochi o forse l'unico movimento politico che in questi anni ha espresso anche una nuova visione del mondo, che è quello femminista, avesse la possibilità di lavorare; concretamente». In sostanza, le donne al potere. Perché no? Questo non è «politically correct», sembra «realpolitik». Minila Appiatti Ravera: non scherzate sulle donne, siamo l'alternativa Adornato: ma da noi c'è bisogno di etica, non di fanatismi 8 marzo: guai a Staino se dice «maiala» surarche cre. Insolo nzio vmentla cri A sinistra Lidia Ravera. Adestra Alberto Bevilacqua e Stefano Benni

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