«Mettete un bavaglio alle minacce di Riina»

I'D Polemica per i messaggi del capomafia, Violante: «Più che imputato mi sembra un invitato» «Mettete un bavaglio alle minacce di Riina» SOTTO ACCUSA LO SHOW DEL PADRINO IARLA, accidenti se parla! 'Eppoi critica, sbeffeggia, D ■ dialoga, si dice che spedisca ordini a raffica, messaggi in serie. Preoccupa, tanto più che di fronte a lui, al signor Salvatore Riina, ultimo padrino conosciuto di Corleone, giudici e avvocati appaiono come intimiditi e Luciano Violante, presidente della commissione parlamentare antimafia, commenta: «Al processo non sembra un imputato ma un invitato». Quando a Luciano Leggio, detto Liggio, altro uomo del disonore, al tribunale di Milano contestarono di aver organizzato il sequestro di Pietro Torielli junior e quello di Luigi Rossi di Montelera, più altre porcherie, lui si voltò verso il presidente e accennò un sorriso ironico: «Il mio nome è stato messo in quest'inchiesta come il cacio sui maccheroni, per dare peso al processo». Se mandò messaggi, lo fece con gli occhi, con un cenno del capo, con i silenzi. Era il 1976. Oggi, di fronte alle telecamere, Riina ha un atteggiamento formalmente diverso e dice: «Io sono come il Tortora del processo di Napoli». Fa l'imputato: si difende. E forse ricorda la raccomandazione agli affiliati in disgrazia di Cosa nostra: «Calati juncu ca passa la china!», «Chinati giunco che passa la piena!». Altro, di fronte a un tribunale, l'atteggiamento dei militanti delle Brigate rosse, dei Nuclei armati proletari o di Prima linea. Si sentivano protagonisti, loro, di un atto politico e contestavano l'autorità dei giudici. A Torino tentarono il «processo di guerriglia» e, per far saltare il dibattimento, in aula scatenarono una sorta di sommossa continua. Sbagliarono i conti: talora furono fatti tacere, sequestrati i loro proclami, allontanati dall'aula; più spesso poterono parlare. E Guido Barbaro, presidente di quella corte e oggi dell'Assise d'appello, commenta: «Fra quel processo e questo che vede impu tato Riina, la differenza è grande e se esiste un'analogia, ebbene, essa è divergente. Per noi, quelli delle Brigate rosse non erano messaggi ma fatti che costituivano reato: per quelli sono stati poi condannati a Bologna». Ricorda ancora il dottor Barbaro: «Io i brigatisti li ho lasciati parlare perché ho sempre adottato quei principii che Conso ora sta riesumando, un imputato può comportarsi come vuole, se poi commette reato, lo si può allontanare dall'aula. Allora, però, da Roma mi facevano interpellanze e io dovevo rispondere. Ma intanto il processo andava avanti. Non si può giudicare un dibattimento dall'esterno, ognuno è in grado di valutare il proprio». Insomma, la strada dei processi ai terroristi è la stessa percorsa oggi in quello di Palermo: gli atti d'udienza finiscono alla procura che decide se siano stati commessi reati. Difficile pensare che «'u curtu» Riina cada nell'errore, così pratico come pare di dibattimenti, così protetto dai suoi legali. Ma, infine: manda o non manda messaggi? Maurizio Laudi, membro del Consiglio superiore della magistratura, avverte: «E' davvero difficile per il presidente di una corte d'assise cogliere l'immediatezza del valore di certe parole e quindi valutarne la loro non pertinenza rispetto a quello che è l'oggetto dell'interrogatorio, cogliere nell'immediatezza il valore allusivo di certe frasi. Eppoi, il codice riconosce all'imputato una notevole libertà espressiva nel difendersi». Son processi difficili e Laudi sottolinea: «La direzione di un dibattimento, in quésto genere di processi, è più complicata di quanto poteva essere nelle udienze per fatti di terrorismo dove l'intimidazione o l'apologia di reato erano esplicite, molte volte addirittura scritte attraverso volantini. Non credo assolutamente si possa pensare a una diversità di trattamento e a una specie di doppio binario a seconda che sia un processo di mafia o di altro». Se davanti ai giudici «'u curtu» parla, non c'è poi tanto da stupirsi. D'altra parte, osserva Laudi, «occorre tener presente che ci si trova di fronte a una persona molto conosciuta attraverso le carte ma che per la prima volta compare in carne ed ossa, quindi un imputato di cui non ci si può immaginare la reazione alle accuse». ' Uno sconosciuto tanto illustre, insomma. «Ma sì, il fatto è che si crea un personaggio, poi Riina che va lì a difendersi diventa una persona che dà fastidio, che lancia messaggi», osserva Giannino Guiso, di Nuoro, difensore di Renato Curdo, di Raffaele Cutolo e ora, per i malaffari di Tangentopoli, dell'onorevole Carlo Tognoli. «Si vorrebbe che Riina non fosse il personaggio che hanno creato, non fosse la persona che esercita il suo diritto di difesa all'interno del dibattimento: ed è una contraddizione in termini». Ma non si tratta soltanto di questo, sottolinea il legale: «C'è una lettura isterica di questi episodi, questi son processi che vengono condotti sempre in maniera isterica. Per esempio, ai brigatisti s'impediva di scrivere lettere ai familiari perché, si diceva, così comunicavano, quando si sa che i canali erano ben altri, canali tradizionali carcerari dove subentra la corruzione oppure l'adesione a un determinato programma: per esempio, una guardia vicina ai mafiosi che porta fuori messaggi». Ma poi, che genere di messaggi lancia il signor Riina? Che ordini? L'avvocato Guiso si dice perplesso: «Quando un capo .viene preso, non ha più alcun potere di dirigere, vedi Liggio. Dicono che è al centro di tutto, invece è al di fuori di tutto. Perché quando uno cade e finisce in carcere è illogico che possa mantenere il potere di prima. Riina un capo? Sì, operativo, ma la mafia è ormai un'operazione economica». Da anni Liggio manca, ha trovato, è vero, il tempo d'imbrogliare qualche beota spacciandosi per artista, ma sembra aver passato il bastone del comando. Ora tocca a «'u curtu». E, forse, non ha torto l'avvocato Guiso quando dice che un capo in carcere non è più quello di prima. Il signor Leggio detto Liggio lo sapeva. Quando era alla sbarra, in quel processo milanese, sperava nell'evasione. Anche Riina deve pensare alla stessa cosa. E forse parla per ricordare agli altri che lui non è uno rassegnato. «Ma poi bisogna vf 'ere se realmente son tutti messaggi quello che dice, e non cose immaginate da chi ascolta», osserva Giovanni Caizzi, procuratore presso la pretura di Milano, all'epoca del processo per il sequestro Montelera pubblico ministero in aula. Liggio lo ricorda bene. «Era un ignoratone, taceva e quando dava risposte erano quelle del mafioso arrogante, sempre negative. Il suo atteggiamento e quello di Riina appaiono totalmente diversi. Sono di generazioni diverse. Questo anche tacendo parla e parlando spesso tace». Vincenzo Tessa ndori Ma l'avvocato di Curdo «Quando un leader viene preso perde ogni capacità di dirigere» Il giudice Barbaro «Non esistono analogie coi processi ai terroristi» Luciano Liggio (a sinistra) e nella foto grande Totò Riina in aula I magistrati Guido Barbaro (sopra) e Giovanni Caizzi (a sinistra)

Luoghi citati: Bologna, Corleone, Milano, Napoli, Nuoro, Roma, Torino