Rizzoli che mi un incubo quelle manette che mi misero davanti a mio figlio di Liliana Madeo

IL RICORDO RACCONTO IL RICORDO «CEPPI»» Rizzoli: che mi un incubo quelle manette misero davanti a mio figlio SROMA I', ho visto i giornali italiani. Ho visto la foto di Carra con gli schiavettoni ai polsi. Esattamente come quelli che mettevano a me per andare in carcere, o da un carcere all'altro, o dal carcere al palazzo di giustizia. C'è una foto che ancora i giornali pubblicano e la televisione fa vedere, in cui io siedo in macchina ammanettato» dice Angelo Rizzoli. Arriva da Los Angeles, dove è andato per lavoro. All'aeroporto di Fiumicino la giovane moglie, Melania De Nichilo, dottoressa all'ospedale San Giovanni, lo accoglie con semplicità e affetto: «Gli ho portato il cappotto pesante, con il freddo che fa!» dice, e sembra quasi giustificarsi per quell'attenzione. Angelo Rizzoli è un po' provato dal lungo viaggio. Ma i ricordi dell'esperienza che ha vissuto dieci anni fa ancora gli urgono dentro. E l'indignazione per lo spettacolo della persona inquisita esposta al ludibrio pubblico, lo fa accalorare. Racconta: «Vennero ad arrestarmi all'alba. Ero a letto, dormivo. Abitavo a Milano, allora. Le guardie di finanza bussarono alla porta e mi svegliarono: "E' lei Angelo Rizzoli? In cinque minuti si vesta e venga con noi" mi dissero. "Una perquisizione?" chiesi, ancora incredulo. "No, guardi, abbiamo un ordine di cattura" spiegarono. Raccolsi le cose che avevo lì e cinque minuti dopo uscivo con loro. Mi porta- rono a San Vittore. Ero angosciato. Un'angoscia infinita. In un certo senso era un arresto annunciato, ma per me restava incomprensibile. Il giorno prima il mio legale mi aveva anticipato: "A palazzo di giustizia corre voce che per la vicenda del Corriere della Sera lei sarà arrestato". L'aw. Predazzi, guardate le carte, mi aveva rassicurato: "Di arresto assolutamente non se ne parla. Domani vado in Procura e sistemo tutto". «Lo choc dell'arresto e delle manette fu il primo. Poi venne San Vittore. Mi portarono al sesto braccio, sottoterra. La cella era piccola, con un gabinetto alla turca. Nel buco c'era una botti¬ glia di plastica. La tolsi e la cella fu invasa da topi enormi: mi trovavo esattamente sotto le fogne. L'impatto con il carcere è tremendo. Entri in un universo che non conosci e ti senti un oggetto, una vittima, consegnato nelle mani di altri. Quell'ambiente, per uno come me di buona famiglia, di buona educazione, di buon livello culturale, ti fa sentire all'estremità opposta della gerarchia in vigore nella società carceraria. Lì tutti i valori sono capovolti: quelle che fuori sono virtù o qualità in carcere diventano difetti. Più sei arrogante, minaccioso, violento, più lì dentro hai diritto di cittadinanza: io che non sono per niente aggressi¬ vo, mi sentivo sperso. Venne poi il primo trasferimento al palazzo di giustizia, nel gabbione dei sotterranei. E mi trovai in una specie di zoo umano. Era l'alba, ero stato portato fuori dal carcere che era ancora buio. Trovai ammassata un'umanità aggressiva, crudele, rumorosa: drogati in crisi di astinenza, transessuali, tutti gli arrestati nella notte per reati minori, ubriachi. Una specie di inferno dei vivi. Io mi misi in un angolo. Ero disperato. «Dopo sei mesi tornai in libertà provvisoria. Andai a casa. Rivedevo finalmente mio figlio Andrea, che aveva tre anni. "Papà, papà!" mi abbracciava e quasi non mi riconosceva. Ci mettem¬ mo a tavola per fare colazione e la polizia suonò. Il tribunale della libertà aveva revocato il provvedimento emesso tre giorni prima. Quella volta mi misero le manette davanti a mio figlio (che, per fortuna, non ricorda più la scena). Fu una scena orribile, un'umiliazione indimenticabile. E per dieci mesi rimasi dentro, cambiando cinque carceri, trasferito ogni due-tre mesi, appena riuscivo a stabilire un minimo di rapporto umano con le persone. Ero divorato dalla vergogna. La vergogna per il fatto stesso di essere indagati spinge al suicidio, alla depressione, all'insonnia: da allora ho incominciato a prendere i sonniferi. Ma al suicidio non ho mai pensato. Non ho fatto niente di male, mi dicevo. I reati valutari di cui ero accusato, sono stati depenalizzati. Per il concorso in bancarotta del Banco Ambrosiano sono stato prosciolto. Ma sentivo che la mia vita era spezzata per sempre. Facevo il confronto con mio nonno e mi sentivo il nipote degenere: tutto quello che lui aveva costruito finiva in un carcere. Tutti i miei beni erano sotto sequestro. La mia famiglia veniva frantumata, e insultata dalla gente, presa in girò. Mia moglie decideva di separarsi. Mio figlio non l'ho visto per un anno, e veniva ritirato dall'asilo, e chiedeva: "E' vero che il papà è cattivo? Che cosa ha fatto il papà? Perché è in carcere?". Per lui ero un mostro. Nelle favole non c'è il carcere preventivo, non c'è l'errore giudiziario, c'è solo l'uomo malvagio che viene punito col carcere, il luogo della massima pena. I giudici non si rendono conto di quante sofferenze individuali procurino, mettendo in carcere persone che non hanno commesso reati gravi e non sono socialmente pericolose. Che - alla fine la mia figura morale sia stata ricomposta, lo sanno in pochi. E la cicatrice psicologica che mi segna è profondissima. La linea della mia vita è attraversata da un taglio trasversale incancellabile». Liliana Madeo «La linea della mia vita è attraversata da un taglio trasversale incancellabile» Qui accanto, il nonno i Angelo Rizzoli fondatore della «dinastia» A sinistra Angelo Rizzoli Qui accanto l'ex moglie Eleonora Giorgi

Persone citate: Angelo Rizzoli, Carra, Eleonora Giorgi, Melania De Nichilo, Predazzi

Luoghi citati: Los Angeles, Milano