Riina «detta legge» davanti ai giudici

Palermo, secondo show nell'aula bunker: avvertimenti ai magistrati e ai suoi uomini Palermo, secondo show nell'aula bunker: avvertimenti ai magistrati e ai suoi uomini Riina «detta legge» davanti ai giudici Parla da boss ancora in sella PALERMO DAL NOSTRO INVIATO «Con suo permesso, e con perxnesso della Corte». S'è appena seduto, sul pretorio. Il presidente si protrae in avanti, come per ascoltarlo meglio. Totò Riina ha gli occhi fermi. E un fascino particolare, che dev'essere quello del capo, ma di un capo antico, di uno che non deve perdere troppe parole per dire le cose che gli servono. Anche quando è gentile, è duro. Sembra un uomo che viene da lontano, dal passato. Saranno gli occhi. E sarà per questo, magari, che nella grande aula, non si sperde. Tiene i gomiti sui poggioli della sedia, e il capo un po' inclinato in avanti. Completo verdino, stazzonato, maglione girocollo. Quando arriva in mezzo ai due carabinieri saluta, sollevando la mano come per dire lo giuro. Appena un cenno. Gli basta così. «Con suo permesso, e col permesso della Corte...». Comincia stropicciando le mani, seduto di fronte a Gioacchino Agnello, presidente della Prima Sezione della Corte di Assise, faccia grande, capelli bianchi, volto accigliato. «Prima di tutto volevo dire due parole verso la stampa». Pausa. Il presidente gli fa cenno di parlare. «Cioè, che io non mando, signor presidente, messaggi a nessuno e non ho niente di mandare messaggi a nessuna cosa. Quindi, desidero che i giornalisti invece di tergiversare quello che io dico, ci saranno le registrazioni, ci saranno quello che ci sarà, possono apprendere...». Presidente Agnello: «Sarà oggetto di interpretazione e valutazione tutto quello che lei ha detto». Riina, sempre gesticolando con le mani: «Anche perché, signor presidente, una volta si scrive che io sono una belva, una volta questo e una volta quello, e ora di più scrivono che io mando messaggi, mando qua, avviso, qualcuno. Io hòh mando messaggi...». Agnello: «Una curiosità, allora». «Sì». Riina ferma le mani. Agnello: «Lei come l'ha saputo, questo dei giornalisti...». Riina: «Mah, semplice. Si può sentire da tante parti, signor presidente. Ci sono le vie...». Agnello: «Ma lei è in isolamento: se uno è isolato non può leggere giornali, non può guardare la tv». Riina: «Le vie del Signore sono infinite...». L'avvocato Cristoforo Fileccia, in piedi, dietro di lui: «Signor presidente...». Runa si gira, leva la mano: «No, avvocato. Un attimo. Faccia rispondere me». Ha sempre lo stesso tono, con chiunque parli. Si volta, di nuovo, verso il presidente. Punta il dito. «Ci sono anche le vie del Signore che sono sempre infinite». E chiude un cerchio con le mani. Agnello: «Le vie del Signore?». Runa: «Le vie del Signore. Sì, signor presidente, le vie del Signore». Punta il dito sopra la sua testa: «Quello che sta dietro di lei...». Agnello: «Ignoravo che ci fosse un quotidiano con questo titolo...». Riina, quasi ironico: «Sì, signor presidente, lei non lo sa? Le vie del Signore sono sempre infinite. Lei mi domanda come lo so...». Ancora Agnello: «Ma il Signore non si occupa di stampa...». E Riina: «No, il Signore pure si occupa di tutto... anche di stampa». Dietro di lui, l'avvocato Fileccia mette fine allo scambio di battute: «Signor presidente, ci tengo a precisare di aver informato io il mio cliente: ieri, durante un colloquio, un regolare incontro in carcere. Nessun canale privilegiato o misterioso». Finisce qui, il primo scontro verbale. Nell'aula bunker la storia della mafia ha cadenze lente, quasi edulcorate, come se la morte e le violenze facessero parte di un altro mondo. Eppure, anche questa volta ci sono cadaveri alle spalle, memorie di sangue e di dolore. Totò Riina passa a deporre nel processo «per gli omicidi trasversali», avvenuti negli ultimi mesi del 1984: lui è ritenuto il mandante, assieme ad altri cinque componenti deUa Cupola, dell'assassinio di due collaboratori della giustizia, Leonardo Vitale e Salvatore Anselmo, e di due familiari di pentiti, Mario Coniglio, fratello di Salvatore, e Pietro Buscetta, cognato di Tommaso. Totò Riina apre con la stampa: non manda messaggi, dice, ma lo dice con toni così duri da far pensare che pure questo sia un messaggio. E continua con la stampa. Un'altra precisazione: «Con un milione e 600 mila lire al mese sono riuscito a far vivere la mia famiglia, perché è molto modesta. E quando avevo bisogno di aiuto, signor presidente, l'ho chiesto a mia madre e a mio fratello. Così stanno le cose. La mia è una famiglia umile. Non siamo abituati ad andare al ristorante». Dalla stampa, al processo. Il presidente elenca le accuse. Conosce gli altri imputati? Michele Greco, Giuseppe Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Pippo Calò e Francesco Madonia. «Solo Provenzano perché è un mio compaesano». Sette pentiti contro di lui: Buscetta, Contorno, Calderone, Marsala, Marino Mannoia, Mutolo e Marchese. Chi li conosce? Gaspare Mutolo, perché trascorse alcuni mesi con lui in.cella nel 1966. E' passata una vita, da allora. Giusto? Riina è sprezzante: «Marino Mannoia? In America si è accusato di 25 omicidi. E Mutolo lo hanno arrestato un mucchio di volte con la droga. Ogni volta che lo arresta¬ no tiene la droga. E' un bellissimo droghiere, signor presidente». Runa è come un fiume in piena, parla, parla, muove le mani. Gli occhi no, quelli sempre fermi sono. «Anche Marsala, signor presidente, dice per esempio che io sono alto 1,75. Non è vero». Riina si alza, allargando le braccia: «Guardi qui. Neanche mi ha mai visto. Sono 1,60». Agnello: «No, non dice 1,75. Dice che lei è alto più o meno come lui». Riina, sedendosi: «Non è vero che sono più o meno come lui. Io sono molto più in basso». L'altro lunedì aveva aggiunto: «15 centimetri in un uomo valgono come un metro, signor presidente». Il pm, Ignazio De Francisci: «Marchese, almeno, lo conosceva...». Riina: «Marchese? Non conosco questo giovanotto. Dice che mi ha incontrato in una villa di San Giuseppe Jato? Invito la Corte e il pubblico ministero a trovarla. Se lui dice di essere stato a casa mia perché non la descrive e dice dov'è? Dobbiamo portarlo sul luogo e vedere». De Francisci: «Ammesso che Marchese possa vedere e ricono¬ scere la casa di 14 anni fa, troveremmo un nuovo proprietario che dirà di abitare lì da 50 anni». Riina, aprendo le mani, come per spiegarsi meglio: «Ammettiamo che troviamo il proprietario che dice di stare lì da 50 anni. Ma nell'atto notarile c'è una data. Allora troveremo un favoreggiatore e troveremo un altro nome. Ma per credere a Marchese deve esistere una casa». De Francisci: «E perché Marchese accuserebbe lei?». Riina: ■ «Perché prima è stato condannato all'ergastolo, e ora è fuori che cammina per le strade tranquillamente. Riina è il parafulmine, il Tortora di Napoli. Messina dice che sono il capo mondiale, ma io sono solo un povero padre di famiglia. Alle accuse di chi mi dice mandante di tutto, io rispondo che non ho mai ordinato niente a nessuno, perché nessuno mi ha fatto nulla». De Francisci: «Marchese ha dichiarato di aver dato la sua vita per lei». Il boss: «Vediamo dove l'ha data la sua vita per me, cosa ha fatto per me». Il presidente Agnello: «Eppure già Leonardo Vitale negli Anni 70 lo aveva indicato quale capo di Cosa Nostra...». E Riina, quasi scattando sulla sedia: «Da quelle accuse venni prosciolto da un giudice istruttore che aveva fama di essere rigidissimo, il dottor Aldo Rizzo. Se avessi avuto un solo processo, il maxiter con il presidente Prinzivalli, e non tutti questi che ho subito, oggi sarei libero, perché in quell'occasione fui assolto, anche se c'erano ad accusarmi i soliti pentiti». Prima, aveva già replicato: «Accuse infamanti e tragedianti». Attaccato: «Questi cosiddetti pentiti», gli occhi fermi, le mani aperte come a ricevere l'ostia: «Sono gestiti, signor presidente. Quello che dice uno fanno dire agli altri. Si tengono a brac- cetto. I pentiti sono quelli che hanno provocato il suicidio dell'avvocato Montana, la morte di un detenuto a Caltanissetta che si è gettato dalla finestra di una cella, il suicidio del giudice Signorino e che hanno fatto arrestare il dottor Contrada». Ecco, perché Contrada non viene a deporre?, insiste Riina: «Io, signor presidente, desiderassi che il dottore Contrada venisse citato in quest'aula, magari per una volta, per dire conosce Riina?, ma lei dava queste notizie a Salvatore Riina? Perché mi pare che il capo della polizia ci ha tutta la stima di questo mondo al dottore Contrada, c'ha tutta la fiducia di questo mondo. Ma vogliamo vedere se questo Contrada mi conosce, magari non dico quello che deve dire, ma se mi conosce. Signor presidente, ma come si piantano certe cose, questo qua s'è impiantato di Mutolo, impiantato di Marchese, impiantato di tutto. Mi dava notizie. Quindi, io latitante, a me ricercato di tutta Italia, il dottóre Contrada mi dava notizie, mi invitava a scappare perché mi doveva venire a prendere la polizia, mi dovevano prendere i carabinieri. Questi sono i pentiti, signor Presidente, Eccellenza della Corte. Voghamo veramente vedere, approfondire chi sono questi pentiti, e cosa c'entrano questi pentiti?». Oggi, terza udienza, ancora di scena Totò Riina. Processo per il tentato omicidio al boss Gerlando Alberti, «u paccare'», all'Ucciardone. Lui si alza, solleva ancora la mano, accennando un saluto e un ossequio. «Eccellenza...». Prima di uscire chiede se può vedere i giornali, nonostante l'isolamento. Beh, sulle vie del Signore è meglio non scherzare troppo. «Buongiorno, signor presidente». Pierangelo Sapegno Precisazioni per la stampa Sfide ai pentiti «Portatemi qui Contrada e chiedetegli se davvero mi conosce» E in cella d'isolamento ma ha letto tutti i giornali «Perché le vie del Signore sono infinite» Due momenti dell'ingresso di Riina nell'aula bunker di Palermo Bruno Contrada, sospettato di avere in passato salvato Riina dalla cattura Riina si volta a guardare il suo avvocato, spesso lo ha zittito per intervenire personalmente nel dibattito

Luoghi citati: America, Caltanissetta, Italia, Messina, Napoli, Palermo, San Giuseppe Jato