Un impero da 800 miliardi di Fabio Albanese

Un impero da 800 miliardi Un impero da 800 miliardi Ma sei anni fa erano spuntati i primi fondi segreti all'estero CATANIA. «I magistrati hanno fatto il loro dovere e hanno anche indicato la strada da seguire. Ma noi dobbiamo reagire, dobbiamo dimostrare che abbiamo le idee chiare». Appena due mesi fa, Eugenio Rendo raccontava ai giornali la strategia che l'industria italiana avrebbe dovuto perseguire per uscire da Tangentopoli. Lo faceva da presidente della commissione Cee dell'Istituto Grandi Opere, l'Igi, che raggruppa le 50 maggiori imprese pubbliche, private e cooperative. Eugenio Rendo, nato a Catania 44 anni fa, tre figli e una laurea in ingegneria, da undici anni regge le sorti di «Italimprese», il quarto gruppo italiano nelle opere pubbliche, un impero da 800 miliardi di fatturato e tremila dipendenti. L'ingegnere è il secondo dei sette figli di Mario Rendo, uno dei cavalieri del lavoro catanesi che il giornalista Pippo Fava, poi ammazzato dalla mafia, definiva «i quattro dell'apocalisse». Il gruppo, nato nel dopoguerra, ormai da un decennio con Catania ha pochi rapporti. Dopo le bufere giudiziarie degli Anni Ottan¬ ta che investirono i cavalieri, Italimprese ha preferito sedi operative e affari lontano dalla Sicilia. L'anziano Mario ha ceduto ai figli le redini delle aziende. E' in vendita perfino il centro direzionale di via Nuovaluce, a Nord di Catania, già in parte ceduto all'Enel quattro anni fa. I 300 dipendenti che ancora vi lavorano saranno trasferiti alla sede centrale di Roma, posti in cassa integrazione o licenziati. In città dovrebbe rimanere solo la «Itin», l'azienda capogruppo nel settore industria, e il pacchetto di maggioranza della più importante tv privata siciliana. Più volte, negli ultimi mesi, Eugenio Rendo ha parlato dell'esigenza di un codice di autodisciplina per gli imprenditori, per evitare ulteriori Tangentopoli. Oggi Italimprese si misura con colossi stranieri come Siemens e Teerbau. Aziende del gruppo vantano di aver messo a punto la più efficiente Tac del mondo e un detector anti-esplosivi per gli aeroporti; hanno lavorato ad Eurodisney e al tunnel sotto la Manica; costruiscono piattaforme pe- trolifere per compagnie del Mar del Nord. Sono lontani gli Anni Cinquanta e Sessanta, i tempi dei grandi appalti in Sicilia, quando il «Gruppo Rendo» partecipava attivamente alla costruzione delle opere pubbliche nell'isola. Di allora, di quei metodi, sembra essere rimasto ben poco. In Sicilia oggi resta il 10 per cento dell'attività. Su uno degli appalti siciliani pende una richiesta di rinvio a giudizio per un cugino di Eugenio Rendo, Luigi, e per altre cinque persone: una complicata vicenda di presunti favori durante i lavori di costruzione della traversa di un ponte sul fiume Simeto. Finora, comunque, il gruppo è sempre uscito assolto da ogni accusa. L'ex giudice Carlo Palermo, ora deputato della Rete, due mesi fa ha detto che alla procura di Catania sarebbe fermo un rapporto dell'87: si parla di un conto in Svizzera utilizzato per il riciclaggio, denominato «Roberto», e che la Finanza attribuiva ai Rendo. Si tratta del terzo stralcio di una inchiesta per mafia già archiviata da altre due procure. «Ma noi con la mafia non c'entriamo», ripetono da sempre al gruppo, anche ieri pomeriggio. E portano a testimonianza le dichiarazioni alla commissione antimafia di Antonino Calderone, che ha definito i Rendo «sbirri», poliziotti; il pentito catanese ha spiegato: «Loro con la mafia non trattavano e preferivano farsi proteggere dalla polizia». Nell'85, il cavaliere Mario fu accusato dallo stesso giudice Palermo di associazione per delinquere finalizzata alle false fatturazioni. Fu assolto in tutti e tre i gradi di giudizio. E sei anni fa, l'allora questore di Catania Luigi Rossi propose il soggiorno obbligato per i cavalieri catanesi «per contiguità». La procura archiviò. Nell'aprile del '91, un giudice istruttore, Luigi Russo, firmò una clamorosa sentenza nella quale scrisse che gli imprenditori catanesi erano le vittime del racket: pagavano tangenti alla mafia, scrisse, perché «in stato di necessità». Fabio Albanese A sinistra: il sostituto procuratore della Repubblica di Milano Gherardo Colombo