GREGORY PECK un eroe per Clinton

A colloquio con il grande attore settantaseienne: «Del cinema mi piace tutto, reciterei anche senza pellicola» A colloquio con il grande attore settantaseienne: «Del cinema mi piace tutto, reciterei anche senza pellicola» GREGORY PECK un eroe per Clinton BERLINO DAL NOSTRO INVIATO Dopo il FilmFest si può conversare calmi con Gregory Peck, e ne vale la pena. Nell'appartamento silenzioso e soft del leggendario Hotel Kempinski, a settantasei anni il più razionale degli Ultimi Divi è un signore piacevole e disidratato, canuto e cortese, dai modi squisiti: autorevole e dignitoso come tutto il suo passato di attore-gentiluomo, eloquente come l'avvocato antirazzista de II buio oltre la siepe, diplomatico come i molti leader politici e Presidenti interpretati, elegante, onesto, impegnato. Un'immagine indiscutibile, progetti futuri inappuntabili: un rifacimento de II posto delle fragole, Ingmar Bergman s'è già detto entusiasticamente d'accordo. Lei ha spesso interpretato eroi positivi. E' stata una sua scelta, una conseguenza del suo nobile aspetto fisico, oppure un caso? «Non è che io abbia mai preso la decisione d'interpretare eroi positivi. All'inizio, pressappoco per i primi vent'anni della mia carriera, quando ero agile e potevo salire a cavallo o scendere da cavallo con un salto, m'è piaciuto interpretare i western. Amavo l'azione, amavo l'attività fisica: era quasi una prosecuzione dei giochi dell'infanzia. C'è stato un periodo in cui sarei probabilmente potuto diventare una star del western e con molto dispiacere di John Wayne venni eletto Cowboy Star per il 1950. Wayne crollò, mi accusò: "Tu non sei un vero cowboy". "Neppure tu", replicai. Tra un cowboy e l'altro facevo L'uomo dal vestito grigio, Le nevi del Chilimangiaro e roba simile, così John Wayne non mi accettò mai corte vero cowboy». Non la accettava in nessun modo, magari. «Politicamente non andavamo d'accordo su niente, eppure nonostante questo eravamo amici: quando ci incontravamo circolava un certo buonumore, un certo umorismo. Lui pensava che io fossi un vero Rosso, io pensavo che lui fosse un vero Uomo di Neanderthal. Ci capi¬ vamo, come attori ci rispettavamo l'un l'altro: ma politicamente eravamo il Polo Nord e il Polo Sud». La sua visione del mondo, le sue idee democratiche, antirazziste, tolleranti e socialmente aperte, la sua tenace difesa dei diritti civili, le derivano dalla sua famiglia, dalla sua religione, dalla sua maturazione personale? «Ho avuto un'infanzia cattolica, un'educazione molto rigida in un istituto militare cattolico per ragazzi: sveglia alle 5,30 del mattino, tutti religiosi come insegnanti... Per un certo tempo ho persino pensato di farmi prete: un'idea romantica, un tipico ideale da giovane cattolico. Poi per fortuna sono andato all'Università. Mi si è spalancato un mondo, ho letto molto di storia, politica e filosofia, mi s'è aperta la mente. Era il tempo del presidente Roosevelt, la sua linea "liberal" mi ha influenzato moltissimo. C'era la Depressione e Roosevelt, con la sua politica attenta ai problemi dei poveri e di chi non poteva migliorare il proprio livello di vita, ha salvato il Paese». Gli eroi positivi... «Dopo un po' ho lasciato perdere il western, ho cominciato a fare film con contenuti più seri: mi piacevano, perché ero d'accordo con quanto recitavo. Ho scelto le sceneggiature che mi sembravano migliori, i personaggi che mi sembravano ben scritti. Spesso, è vero, si trattava di uomini che facevano o tentavano di fare l'impos- sibile, di eroi: probabilmente, registi e produttori mi trovavano adatto all'eroismo. Ma ho recitato anche personaggi negativi: un ossesso come il capitano Achab in Moby Dick, uno spaventoso egocentrico come McArthur (gran generale, però), un sadico come il dottor Liebermann de I ragazzi venuti dal Brasile, ispirato al medico criminale nazista dottor Mengele. Ho recitato infine altri personaggi non buoni né cattivi, "moralmente ambivalenti" direbbe Martin Scorsese, che riflettono il mondo in cui viviamo. In realtà amo ogni personaggio, del cinema mi piace tutto: viaggiare, vedere posti nuovi, l'atmosfera di solidarietà e di collaborazione che si crea nella troupe, l'andare sul set ogni mattina, l'amicizia. Il buon lavoro di tutti i giorni mi interessa più del risultato: reciterei per il cinema anche se nella macchina da presa non ci fosse pellicola». Pure, con alcuni registi il suo rapporto è stato pochissimo amichevole: Hitchcock, John Huston. «A dire la verità, credo che Hitchcock e Huston non amassero molto gli attori. E' soltan¬ to per questo, credo, che non ho avuto con loro quel legame amichevole, da uomo a uomo, che mi aiuta a darmi al meglio». Qual è stato invece il suo film più felice? «Vacanze romane: eravamo giovani a Roma, con Audrey Hepburn, diretti da William Wyler. Da maggio a ottobre del 1952, mi pare: mesi magnifici, ne ho un ricordo bellissimo. Era una delle prime produzioni americane importanti realizzate in Italia dopo la seconda guerra mondiale: abbiamo girato spesso in esterni, per le strade, circondati da una folla d'italiani attenti, coinvolti, pronti a collaborare, divertiti. I vigili fermavano il traffico, c'era una partecipazione calda, straordinaria. Abitavo vicino ad Albano, in una tenuta di campagna chiamata Vigna Sant'Antonio, poi comprata e abitata ancora adesso da Anthony Quinn». Lei è stato per tre volte presidente di quella Academy of Motion Picture Arts and Sciences che assegna gli Oscar. Quali sono, secondo lei, pregi e difetti di questo premio? «E' un premio dato con voto segreto, da professionisti. Capisco che possa risultare urtante la grande macchina pubblicitaria che lo circonda, il grande circo volgare scatenato dal fatto che, dal punto di vista del profitto, un Oscar ha molta importanza. Però nessuno può determinare il voto, non c'è corruzione e, lo ripeto, il premio viene assegnato da professionisti: novecento attori stabiliscono le candidature per i migliori attori e così via per ogni settore professionale; ad attribuire l'Oscar sono cinquemila persone del mestiere. Ci sarà naturalmente il gioco delle influenze e simpatie, dei sentimenti personali, delle amicizie. E' umano. Però il premio è onesto, ed è il più importante premio cinematografico del mondo. Io sono un sostenitore dell' Oscar». E chi vincerà, quest'anno? «Posso dire chi io vorrei che vincesse, darle i miei Oscar: Casa Howard miglior film, Emma Thompson migliore attrice, Al Pacino migliore attore. Anche Clint Eastwood è ben piazzato, come attore e come regista. Il suo film Gli spietati è bello». Lei è anche produttore di film. Avrebbe scritturato Ronald Reagan per recitare il presidente degli Stati Uniti? «No. Fuori parte». Henry Fonda? «Meglio». Gregory Peck? «Bene. Ma io non sono mai stato interessato a una carriera politica». Bill Clinton? «Subito. E' il miglior presidente che gli Stati Uniti abbiano avuto da molti anni. Ripongo in lui grandi speranze. E' un uomo che conosce bene le cose. Se riuscirà a portare avanti i suoi programmi, entro quattro anni la situazione americana sarà migliore». Qual è la cosa più brutta che abbia mai visto in vita sua? «Mio figlio è morto suicida. Ma non intendo parlarne». Non voleva essere una domanda personale. «Allora direi l'Olocausto: cosa può esserci di peggio? Quando nel 1945 s'è cominciato a sapere e capire quel che era accaduto, è stato terribile. Più recentemente, i disordini razziali a Los Angeles. Terrificanti. Vedi alla televisione la tua città che brucia, poco lontano da casa tua... Los Angeles è nei guai più di qualsiasi altra metropoli americana, ha un problema razziale gravissimo. Ha otto milioni di abitanti, ha tanti cittadini neri, ispanici, asiatici: vivere normalmente in armonia è già difficile, figurarsi in una società multirazziale. Penso che l'unica possibilità sia procedere gradualmente, passo dopo passo, con la fiducia che forse tra cinquant'anni potremo finalmente vivere tutti insieme in pace». Lietta Tomabuoni «Ronald Reagan? Come presidente era fuori parte. Il ricordo più bello? 'Vacanze romane" con Audrey Hepburn» Sopra, Gregory Peck nel '63 riceve l'Oscar da Sofìa Loren per «Il buio oltre la siepe». A lato, nei panni di Achab in «Moby Dick» (1954). In alto, nei giorni scorsi al FilmFest di Berlino Sotto, Gregory Peck con Ava Gardner nel film «Le nevi del Chilimangiaro» ( 1952). «Per aver accettato ruoli come questo, Wayne non mi accettò mai come vero cowboy Gregory Peck: «Ho avuto un'infanzia cattolica, per un certo tempo ho persino pensato di farmi prete»

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