Io, inviato nella notte dell'orrore di Giampaolo PansaGiampaolo Pansa

Io, inviato nella notte dell'orrore Io, inviato nella notte dell'orrore Un collega mi disse: «Vuoi vedere la guerra? Vai laggiù» JREMAVO in quell'auto che correva, alla disperata, da Torino verso Belluno. Accanto a me, Francesco Rosso ronfava tranquillo, col Borsalino schiacciato sugli occhi. «Perché non dorme anche lei? - mi diceva ogni tanto l'autista de La Stampa -. Dorma, perché domani mattina avrà da faticare!». Ma io non potevo dormire. Sentivo proprio lì, alla bocca dello stomaco, una stretta che mi teneva sveglio. Sveglio per la paura dell'inferno che avrei incontrato alla fine del viaggio. E sveglio per l'angoscia di non saperlo raccontare. Così, nella foschia notturna della Val Padana, mi veniva incontro il fantasma di «Gidibì». Ossia di Giulio De Benedetti, padre-padrone del giornale. Un fantasma che ringhiava: «Servizio scadente. Da cestinare». Cercavo di distrarmi imprecando contro Tino Neirotti e Bruno Marchiare che mi avevano fatto partire: «Appena abbiamo chiuso in tipografia, vai tu con Rosso. Il posto si chiama Longarone. Toh, prenditi la bozza della prima pagina». Sino a mezzanotte, quella pagina era stata molto diversa. Una pagina tranquilla per un tranquillo mercoledì 9 ottobre 1963. Kennedy vendeva il grano ai russi. Disordini a Roma per gli edili in sciopero. Monica Vitti tornava a girare con Antonioni. Poi, già oltre la mezzanotte, era emerso l'inferno. Crollata una diga in Cadore. Centinaia di morti. Una fiumana ha travolto Longarone... Quel titolo, quelle parole, erano lampi nel buio dell'auto che correva. Fiumana. Grande muraglia. Che cede di schianto. Enorme coltre di acqua e fango. Morti. Centinaia di morti. Chiudevo gli occhi, ma le parole dardeggiavano. Poi, con l'alba, le parole divennero immagini pietrificate. Il ponte di Susegana carico di gente atterrita. Il Piave gonfio e nero. Il blocco dei cara- binieri a Ponte nelle Alpi. Un paese, Faè. Poi Pirago. Si va di qua per Longarone? Sì, andate dove volano i corvi. Dopo Pirago niente più strada. Ma non c'era la statale 51? Sì, era questa spianata immensa di fango, pietre, detriti. Giù dall'auto. In marcia sulla massicciata della ferrovia per Cortina. Quanti chilometri? Quattro. Cinque. Forse di più. Sino al deserto lunare del Vajont. Gli inviati dei giornali di Milano stavano già tornando. Quelli del Giorno erano stati i primi ad arrivare. Guido Nozzoli, angosciato, con le brache infilate in stivali da cow-boy. Franco Nasi, sgomento. Giorgio Bocca, ingrugnato. Nozzoli mi chiese: «Quanti anni hai?». «Ventotto». «Allora tu la guerra non l'hai vista. Va avanti che la vedrai». Avanti, avanti. Camminavo e scrivevo sul mio quaderno. Sgorbi che poi avrei decifrato con fatica. E la diga crollata? Ma quale crollo. Eccola, quella maledetta diga. Intatta. Uno scudo gigantesco, disumano nella sua potenza. Brillante nel sole. L'onda scagliata oltre quell'arco aveva fatto più di mille morti. Forse duemila. Uno sterminio consumato in pochi istanti. «Un colpo di maglio dalla furia atomica» scrisse poi Gaetano Tumiati su La Stampa. Nel pomeriggio rientrai a Belluno, all'Hotel Cappello. Quasi in trance raccontai quel che avevo incontrato: «Scrivo da un paese che non esiste più...». Pigiavo sui tasti dell'Olivetti senza più pensare al fantasma di «Gidibì». E senza immaginare che, per un beffardo sortilegio tipo- grafico, il mio primo servizio dal Vajont sarebbe uscito privo di firma. Per fortuna non badavo alla distanza siderale tra le mie parole e l'inferno da cui ero tornato. Mi bastava l'averlo visto. Altri inviati, più famosi ma più anziani, non ce l'avevano fatta a scarpinare nel fango. Però avevano scritto colonne e colonne. Adesso le vecchie star ingollavano amarissimi whisky guardando, allibite, il telegiornale: la tivù stava mostrando all'Italia un inferno tutto diverso dai loro racconti. Che sghignazzate, le nostre di giovani cronisti. Certo, gli inviati sul Vajont non si amavano. Troppe grandi firme. Troppe prime donne. E quasi tutti concentrati in un solo hotel. Insop¬ portabili, quelli del Corriere della Sera. A parte Egisto Corradi, una squadra tronfia, spocchiosa, ubriaca del suo primato in copie vendute. E poi la buttavano troppo in politica. «Perché tutti questi sindaci emiliani del pei che corrono lassù?». «Ma ci hanno fatto il partigiano, da quelle parti!». «Balle, oggi andiamo a rompere i coglioni ai comunisti del Vajont!». Impresa non facile. A Longarone ti tiravano le pietre. Anche perché i sopravvissuti avevano piantato tanti cartelli sul deserto lunare. «Questa è la casa di Arduino Polla». Un cartello per ogni casa scomparsa sotto l'ondata. Imparai a camminare con rispetto tra i fantasmi di quelle case. Soltanto così la gente ti ac¬ cettava. Senza guardare il tuo taccuino con diffidente rancore. Esisteva un solo giornalista rispettato, anche amato. Era una donna: Tina Merlin, corrispondente de l'Unità da Belluno. La prima a denunciare la minaccia di quella diga e dei suoi padroni, la Sade e l'Enel. L'avevano incriminata, processata, poi assolta. Tina sapeva, e soffriva, più di noi. Era una scampata, una sopravvissuta. Scriveva piangendo con rabbia. L'astio verso la truppa informativa scemò soltanto quando comparvero i politici di Roma. Per primo Fiorentino Sullo, ministro dei Lavori Pubblici. Poi Giovanni Leone, capo del governo, affranto, terreo. Quindi Antonio Segni, capo dello Stato, dal viso paurosamente esangue. Gli trottavano al fianco Rumor e Andreotti. Oggi li avrebbero impiccati. Allora li circondarono di gelo. A osservarli, muti, c'erano anche gli alpini del IV Corpo d'Armata. Avevano un comandante straordinario, il generale Carlo Ciglieri. Li aveva portati lì poche ore dopo l'ondata. «Com'è Ciglieri?», chiedevi ai bocia. E loro, furbi: «Cattivo, ma giusto». Gli alpini strappavano dal fango i morti e li affidavano agli jugoslavi. Era un reparto specializzato nel riconoscimento dei cadaveri. Li lavavano con un liquido speciale, poi li fotografavano da tutti i lati, quindi compilavano una scheda. A quel punto il morto finiva in un sacco di plastica col nome del deposito cimiteriale (Belluno, Pieve di Cadore, Ponte nelle Alpi...) e un numero progressivo. Centinaia e centinaia di sacchi mortuari, uno sull'altro. Le schede tutte alla prefettura di Belluno. Due stanze, quattro lunghi tavoli. Una processione infinita a cercare in quelle carte, su quelle foto, i volti amati: figli, nipoti, padri, mamme, nonni, tutti uccisi da chi? Dalla Sade, gridava chi era rimasto, dall'Enel, dallo Stato, dai burocrati, dalla voglia di denaro, di profitto. Ecco la guerra che Nozzoli diceva avrei visto. Passavo sbalordito tra questi orrori. E, grazie a Dio, non avevo tempo per riflettere. Dovevo scrivere. Scrivere ogni giorno. Poi dettare al telefono il servizio. Poi correggere. Poi ridettare. Poi ripartire per il deserto del Vajont. E correre, correre. Per non prendere buchi. Per fare meglio degli altri. O al- meno come gli altri. Accettavo tutto con l'impassibilità del giovane cronista alla prese con il suo Primo Grande Fatto. Giorno dopo giorno, mi scoprii vuoto di angoscia. Diverso dal me stesso del 10 ottobre all'alba. Quasi uguale ai turisti che, di sabato, intasavano in auto la statale di Alemagna. Migliaia di auto. Ingorghi colossali. Un'occhiata al deserto. Poi tutti a Cortina. Ce ne andammo senza neppure la certezza sul numero dei morti. Duemila e trecento? Di meno? Di più? All'inizio del dicembre 1963, la posta mi portò a Torino il primo numero del Longarone, foglio redatto da don Pietro Bez. C'era l'elenco dei morti di quella parrocchia: 1466. Nome, cognome, età, via in cui abitavano. Mi sembrò di camminare un'altra volta nel deserto del Vajont. Strada per strada. Casa per casa. Qui erano scomparsi tutti i Fontanella, là tutti i De Vecchi, più avanti tutti i Teza, i Bratti, i De Bona... Famiglie con sei, otto, nove figli dissolte nel fango. Scriveva don Bez: «Dimostriamoci robusti nella prova. Dagli altri avremo l'aiuto a rimetterci in piedi, ma dobbiamo essere noi a camminare verso un avvenire migliore». Dieci anni dopo tornai a Longarone, per il Corriere di Piero Ottone. Scrissi una lunga inchiesta sulla ricostruzione del Vajont. Ottone la intitolò: «Longarone è emersa dal fango per affogare nella speculazione». Il dopo-disastro era stato gestito nel solito modo: assolvendo i colpevoli, premiando i furbi, tenendo il sacco ai disonesti. Un piccolo funzionario dello Stato mi suggerì una parola terribile: mafia. Disse: «E' quasi come in Sicilia, mi creda. A Longarone oggi si configurano gli elementi tipici della mafia». Ma questa è tutta un'altra storia. E non ho l'animo di ricordarla più. Giampaolo Pansa ■*■•<*.•Ab?*''. .■:;>■•: Un elicottero americano di soccorso. A fianco Giampaolo Pansa Un elicottero americano di soccorso. A fianco Giampaolo Pansa