Ma nessun barbaro assedia Tangentopoli di Lorenzo Mondo

r PANE AL PANE Ma nessun barbaro assedia Tangentopoli botta e risposta tra l'onorevole Forlani, fino a ieri compassato e retrattile segretario della de, e il senatore Miglio, loquace ed effervescente teorico della Lega Nord. Oggetto della disputa è la «calata dei barbari», anche se l'evocazione dei guerrieri che misero a sacco Roma acquista, nei due interlocutori a distanza, una diversa tonalità. Per Forlani si tratta di voce dal sen fuggita. Si confessa turbato dagli incessanti avvisi di garanzia e dalle carcerazioni preventive, dalla inarrestabile macchina giudiziaria che mette a soqquadro il disordine costituito. Parlo di grido dell'anima perché a mente fredda nessuno potrebbe, almeno da un punto di vista iconologico, assimilare ai barbari i giudici che procedono, non a colpi di mazze e spadoni ma di codici e manette (e i ferri ai polsi, sia detto di passaggio, rappresentano il solo, deplorevole residuo di barbarie nella nostra giustizia: penoso contrappasso per chi, potendo disporre altrimenti, ha tollerato per i detenuti «comuni» questa pratica ignominiosa). Ma forse Forlani si esprimeva per metafora, pensava a Tangentopoli assediata, e allora non si vede davvero come possa rimpiangere le sue mura diroccate. Sia come sia, è un invito a nozze per Gianfranco Miglio, che essendo uomo del Carroccio non perde occasione per incrociare le lame. Ma, come è nel suo temperamento, non si preoccupa di strafare, di confondersi per troppa sicurezza. Benedetti i barbari - è la sostanza del suo discorso - ad essi l'Europa è debitrice della civiltà moderna. Non soltanto hanno rinsanguato fisicamente i popoli latini ma hanno sbaragliato una concezione della vita improntata allo sterile otium umanistico, al disprezzo delle genti «mecaniche». Miglio parla dell'Impero romano ma naturalmente guarda all'oggi, ripetendo la consueta contrapposizione tra il Nord efficiente e il Sud parassitario. Trascinato dalla verve polemica, non si accorge di mescolare capricciosamente Gibbon, lo storico della grande deca¬ ntar denza, con Asterix, il folletto che nelle selve galliche tiene testa alla presunzione delle legioni romane. E' divertente, e perfino rassicurante, che nel tramonto della prima Repubblica si spendano sospiri e spiritosaggini che ricordano le tenzoni liceali. Ma l'idea che i due si fanno della barbarie, e del suo eventuale utilizzo, appare decisamente inadeguata. C'è una poesia di Kafavis che mi sembra illuminante. A Costantinopoli, capitale di un impero in disfacimento, corre voce che stiano arrivando i barbari. I senatori non discutono più le leggi e l'imperatore siede apatico sul trono. Pretori e consoli, abbandonate le armi, indossano vesti da parata. Perfino gli oratori tacciono, la gente affolla le piazze. Ma scende la sera senza che gli invasori si facciano vedere. Tutti allora rientrano mestamente alle loro case: «E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? - Era una soluzione quella gente». Si direbbe che il raffinato poeta antiquario parli per noi. L'atteggiamento diffuso in questi mesi è proprio l'attesa di un evento libeRitore, catartico. Lo hanno incarnato i giudici che adesso, affaticati e impensieriti dalle reti stracolme, da soli non bastano più. Sdegno, sconforto, disagio morale contribuiscono a uno spirito dimissionario che spalancherebbe volentieri le porte a chiunque altro promettesse di prendersi cura di noi. Ma non ci sono barbari, miti o vendicativi, che possano sostituirsi alle responsabilità collettive. Gli ultimi si sono impantanati nell'ormai leggendaria terra dei Soviet. Occorre dunque reimparare a fare le leggi, a difendere le mura della città, a radunarsi nei comizi. Senza rinunciare, beninteso, a spazzare le piazze e le strade. Lorenzo Mondo u

Persone citate: Benedetti, Forlani, Gianfranco Miglio, Gibbon, Miglio

Luoghi citati: Costantinopoli, Europa, Roma