«Enimont quante spinte...»

Sergio Ristuccia, della Corte dei conti, rievoca il suo j'accuse Sergio Ristuccia, della Corte dei conti, rievoca il suo j'accuse «Enimont, quante spinte— » «L'umore dell'esecutivo era nettamente a favore dell'acquisto da parte Eni» «Errata la decisione di comprare anche le quote degli alleati di Gardini» ROMA. «Nella gestione della vicenda Enimont si sono verificate non opportune sovrapposizioni di ruoli e funzioni decisionali dei soggetti pubblici; il che ha finito per indebolire la stessa parte pubblica». Queste parole si leggono a pagina 64 della relazione firmata dal consigliere Sergio Ristuccia e controfirmata dal presidente Giuseppe Carbone con cui la Corte dei conti, il 4 aprile del '91, mise il marchio severo dei suoi dubbi su un'operazione che, a distanza di appena due anni, si sarebbe ritrovata al centro di Tangentopoli: la vendita dalla Montedison di Raul Gardini all'Eni di Gabriele Cagliari, per 2805 miliardi, del 40% di Enimont; e il contestuale acquisto, da parte dell'Eni, per altri 1360 miliardi, delle azioni di minoranza della cordata di alleati di Gardini: JeanMarc Vernes, Gianni Varasi e la banca d'affari Prudential Bacile. Dottor Ristuccia, cosa intendeva con l'espressione «non opportune sovrapposizioni di ruoli e funzioni decisionali di soggetti pubblici»? «In sostanza, mi riferivo alle pressioni politiche. Io ero il rappresentante della Corte delegato all'interno dell'Eni, all'epoca dei fatti, e ricordo che l'umore dell'esecutivo di allora, come lo percepivamo noi, era dichiaratamente favorevole a che lo Stato acquistasse dalla Montedison il 40% di Enimont, anziché vendere la sua quota. E invece nella gestione di complessi affari contrattuali, deve essere primaria la responsabilità dell'ente di gestione, senza coperture politiche». E il prezzo? Per lei è giusto o fu eccessivo? «Anche questo lo scrissi chiara- mente: il prezzo si collocò appena al di sotto del valore più alto indicato dai valutatoli indipendenti come possibile prezzo di vendita-acquisto». E perché questa scelta? «La scelta si spiega con l'importanza che l'Eni dava alla chimica e con la sua volontà di tenersela». Ma come arrivò la giunta dell'Eni alla determinazione di questo prezzo? «La maggioranza della giunta era, secondo me, dell'idea che Enimont andasse acquistata e non ceduta. Quanto al prezzo, ricordo che rimasi frustrato accorgendomi che nessuno dei membri di giunta aveva letto per intero le perizie dei valutatori». E poi durante la riunione decisiva alla giunta venne presentata la lettera con cui l'allora ministro Piga fissava il ventaglio del prezzo minimo e massimo al quale poteva essere comprata o venduta la quota: tra 2650 e 2850 miliardi. Giusto? «Ripeto, appariva chiaro che la volontà politica fosse quella di comprare. Perché, vede, le valutazioni din una società possono essere le più diverse, a seconda dello scopo al quale servono. Se servono come base per una trattativa di vendita, è determinante alla fine la volontà di comprare». E allora? «Allora il fattore determinante questa volontà politica di comprare, non la determinazione del prezzo». Cos'altro la colpì? «Mi colpì molto negativamente, e lo scrissi, la decisione dell'Eni di acquistare anche il 20% delle azioni Enimont che erano state collocate in Borsa e rastrellate in gran parte dagli amici di Gardini. Innanzitutto perché non era una spesa necessaria. La legge sull'Opa obbligatoria non c'era ancora, e nessuno avrebbe potuto obbligare l'Eni a procedere all'operazione. Quindi si trattò di una decisione giustificata in vario modo, ma sostanzialmente del tutto volontaria. E non basta». Cioè? «Le azioni Enimont di proprietà dei due soci fondatori, Eni e Montedison, erano del tipo a godimento differito, cioè non percepivano dividendo, mentre quelle diffuse sul mercato erano normali, ed erano già state remunerate per l'esercizio '89. Una differenza rilevantissima, nonostante la quale si decise di pagarle lo stesso prezzo. Cosa che, come scrissi, non era giustificata sia in ragione dei criteri di rigore cui l'ente pubblico deve attenersi, sia in ragione del fatto che la maggioranza delle azioni scambiate era in mani agli azionisti facenti parte della maggioranza, ostile all'Eni, che si era costituita intorno a Montedison». Sergio Luciano Giuseppe Carbone

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