TORINO il futuro nascosto di Alberto Papuzzi

Giulio Bollati e Luca Ronconi a colloquio: che cos'è oggi l'ex laboratorio d'Italia? Giulio Bollati e Luca Ronconi a colloquio: che cos'è oggi l'ex laboratorio d'Italia? il[futuro 7S1 TORINO L ' U il sipario. Va in scena la m cultura d'una città. Vista l | con gli occhi e attravèrso sé. I le esperienze di uh editore e scrittore, Giulio Bollati, e di un uomo di teatro, Luca Ronconi. L'immagine tradizionale di Torino negli Anni Cinquanta e Sessanta era quella di una citta concentrata stillo sviluppo industriale: oggi si scopre - vedi la mostra «Un'avventura internazionale» al Castello di Rivoli che quella città è stata un centro importante di produzione e di consumo di cultura. La Torino degli Anni Novanta ha davanti un destino oscuro: fra vent'anni si scoprirà al contrario che anche questa fase difficile è ricca di fermenti? Oppure la cultura torinese è diventata una «zona grigia», in sintonia con la crisi politica e amministrativa? Bollati, parmense, arrivò a Torino alla fine del 1949, ha passato oltre trent'anni nelle bianche stanze della casa editrice di Giulio Einaudi, oggi è l'editore della Bollati-Boringhieri. Ronconi, romano, dirige da quattro anni il Teatro Stabile di Torino, con cui ha messo in scena, nel 1990 al Lingotto, Gli ultini giorni dell'umanità, la tragedia di Karl Kraus, considerata irrappresentabile. Diverse definizioni si sono coniate per la Torino del dopoguerra: città-fabbrica, città laboratorio, e così via. Tali identità come si rispecchiano nella vita culturale? LUCA RONCONI: «Negli Anni Sessanta vivevo a Roma e l'immagine di Torino, vista dal di fuori, era di una città con una cultura forte, molto riconoscibile: una cultura politica, nel senso che sembrava ci fossero più che in altre città un collegamento e un intreccio fra lotte politiche, lotte sindacali e vita intellettuale». GIULIO BOLLATI: «Questo che dice Ronconi è importante. Quando si parla di cultura si pensa ai pittori, si pensa agli scrittori, a vicende di enorme importanza, nessuno le sottovaluta per carità. Ma nel caso di Torino non si può trascurare una nozione fondamentale che è quella interconnessione dei fatti, che io identificherei, con una accentuazione estensiva, nella cultura industriale. Si tratta di avere la coscienza di vivere in una realtà in cui l'industria rappresenta problemi di tutti i tipi, dalla tecnologica all'estetica. Ma oggi Torino - che era la città d'avanguardia della rivoluzione industriale italiana - difetta proprio di cultura industriale. Sono un po' stanco di sentirmi dire: abbiamo avuto Cesare Pavese e Primo Levi. Hanno fatto delle grandi cose a proprie spese. Nei loro libri ci sono la torinesità e la moralità piemontese. Tutto vero. Ma la cultura torinese è qualcosa di molto più complesso». RONCONI: «Io sono a Torino re- lativamente da poco. Essendo venuto con una funzione molto precisa, ho avuto l'impressione di una città non viva culturalmente. D'altra parte dovrei chiedermi quali città possano definirsi culturalmente vive. Abbiamo alle spalle un decennio in cui le tensioni politiche erano meno accentuate, i dibattiti ideologici non ne parliamo, le questioni estetiche sono state accantonate, la cultura è diventata un fatto puramente amministrativo». Quali le cause dell'impoverimento culturale? BOLLATI: «Per esempio io faccio una grande colpa al partito comunista - non le colpe che gli si fanno di solito - di aver abbandonato Torino per fare politica a Roma. Di aver lasciato a se stessa una città dove c'erano ancora da fare dei discorsi di governo della società industriale, per inserirsi nel grande gioco dei partiti. Ma non è priva di colpe anche la classe imprenditoriale, che ha sfruttato il famoso miracolo economico e ci si è adagiata un po' sopra, senza innovare. Facciamo subito un confronto, pensiamo a cosa era la Ivrea di Olivetti, di Adriano Olivetti, mentre Torino aveva rinunciato a pensare se stessa in termini di cultura industriale avanzata». RONCONI: «Dal di fuori, le due cose sembravano complementari. L'Ivrea di Olivetti appariva tutt'uno con la Torino dell'industria». BOLLATI: «Invece Adriano Olivetti ha rappresentato un'eccezione». RONCONI: «Nel mio campo, è cambiato il rapporto fra chi produce cultura e chi è destinato a riceverla. Oggi è un rapporto totalmente mediato e la figura centrale dell'intellettuale e dell'artista, alla francese diciamo, non è più pensabile. In questo senso, la cultura è diventata un fatto amministrativo: noi sappiamo che il pubblico giudica i nostri committenti attraverso noi. Questa è una novità che negli Anni 50 e 60 non c'era. Noi sappiamo di essere i garanti di un giudizio che i loro amministrati danno sui nostri committenti. E ciò non può non significare un impoverimento». La bufera giudiziaria abbattutasi sulla città fa parte della crisi culturale? RONCONI: «Non lo so. Non so se l'impoverimento culturale è all'origine del degrado politico. E' comunque auspicabile che dallo scossone politico nasca un diverso modello culturale». BOLLATI: «Non mi sembra strano che anche Torino sia entrata nel vortice degli scandali, mi sarei stupito se ne fosse restata fuori. Siamo in presenza di un vero e proprio sistema politicoeconomico, che darà materia di studio agli storici e ai sociologi del futuro. L'Italia è il Paese che nell'800 ha inventato il trasformismo: quello che sta emergendo è un trasformismo moltiplicato e aggiornato. C'è solo da augurarsi che non prefiguri un'era definitivamente post-liberale e post-democratica». «Gli ultimi giorni dell'umanità» si sarebbe potuto realizzare in qualsiasi altra città? RONCONI: «Indubbiamente qui si sono potute fare delle cose che altrove non si sarebbero potute fare, ma la cosa incresciosa è che ciò che si fa cade nel vuoto. Non è la mancanza dell'occasione, è la mancanza di riscontri. Forse non è un fatto solo torinese». BOLLATI: «Però a Torino è più accentuato. Se fai una cosa alla Scala, coinvolgi tutta Milano. RONCONI: «Sì, a Torino, hai l'impressione che gli aspetti positivi non vengano messi in circolo e utilizzati in tutto il potenziale. Una nostra prima riceve molte più sollecitazioni da persone di Parigi o di Berlino di quanto non accada a Torino». BOLLATI: «Sai, questa è la città che non sorride. Voglio dire: il costume dei torinesi, riservato, cauto, silenzioso, un po' snob. Tutti luoghi comuni, che però agiscono, agiscono». Perché non ci sono più scrittori che raccontano Torino come l'hanno raccontata Pavese, Calvino, Arpino? BOLLATI: «E' un fenomeno che riguarda in generale la narrativa. Si parla molto della povertà della narrativa italiana d'oggi? Ma per quanto riguarda Torino non dimenticherei per esempio un piccolo libro a me molto caro di Dario Voltolini, che parla della città: sono graffiti metropolitani, esili, giovanili, ci senti un'aria di fine di stagione ma autentica. E a proposito di quello che si diceva prima, ci sono due importanti scrittrici, Lalla Romano e Marina Jarre, nei cui libri si ritrovano le radici del carattere torinese e piemontese. Le radici di una cultura antica e forte. Ma la città sembra quasi abbia il gusto di ignorarle, nell'albero genealo- gico dei suoi valori». Attraverso Torino arrivarono in Italia avanguardie teatrali come il Living. o le opere di Ionesco. Perché la città non esprime più questa vivacità? RONCONI: «Erano altri anni per l'intera cultura europea. Se ci lamentiamo oggi d'una perdita di vivacità, la dobbiamo riscontrare anche nelle principali città europee. E' un momento in cui la stessa parola cultura fa arricciare il naso e suona retorica. Sembra significare qualcosa di parassitario; non qualcosa senza cui il resto non avrebbe senso». Quali sono le risorse culturali su cui Torino può giocare il suo futuro? BOLLATI: «Posso fare una provocazione, ponendo io una domanda? Quali sono i centri scientifici importanti di Torino? Me lo sapete dire? Non lo sapevo neanch'io. Mi sono informato. Sono almeno quattro, forse di più. Uno è l'Isi, un istituto per lo scambio scientifico con sede a Villa Gualino, che conta sulla collaborazione di personaggi come Regge, Luria, Rasetti, Conte. Nell'informatica abbiamo il centro di supercalcolo, sostenuto da un consorzio fra Politecnico, Università, Industriali, dotato di uno dei quattro supercalcolatori italiani. Nelle telecomunicazioni è importantissimo il Politecnico, con Zich, Benedetto, Castellani. In campo medico opera un centro di ricerca oncologica di livello mondiale. Solo se diventerà una città della scienza, una città della ricerca, Torino ha un futuro all'altezza del suo passato e non sarà una delle tante Detroit sorde e grigie dell'Occidente. Per il momento nemmeno le risorse esistenti sono conosciute, capite, valorizzate. Uno scienziato mi ha raccontato che si sono rivolti a un istituto bancario per avere degli aiuti, ma gli è stato risposto: siamo già impegnati in una mostra». Alla fine il vostro è un giudizio pessimistico? BOLLATI: «E' una fotografia. Non una valutazione». RONCONI: «E' il rapporto fra passato e presente. Il cambiamento è stato un impoverimento». Ma quando lei, Ronconi, è arrivato a Torino, ha trovato un clima di collaborazione o di diffidenza? RONCONI: «Di collaborazione certo, ma anche di diffidenza. Contro qualcosa che possa disturbare, o contribuire nel nostro piccolissimo ambito teatrale ad alterare certi equilibri ormai stabiliti». Quindi sarebbe ancora vera la tradizione del bogianen: ciò che è nuovo disturba? RONCONI: «No. Direi così: tutto quello che è nuovo è bene che resti anche straniero». Alberto Papuzzi L'editore: «Sarà la scienza a darci un avvenire all'altezza del nostro passato» A fianco, Lalla Romano. Sopra, Regge. A sinistra Adriano Olivetti