APPELIUS la voce del Duce

50 anni fa, l'ultima trasmissione all'Eiar 50 anni fa, l'ultima trasmissione all'Eiar APPELIUS la voce del Duce EROMA RA il Mussolini del microfono. Il suo balcone di Palazzo Venezia era lo studio dell'Eiar, dove inneggiava ogni sera agli incrollabili destini del fascismo e del Duce. E cadde cinque mesi prima di lui. Il nome di Mario Appelius dice poco o forse nulla alle nuove generazioni, distratte per fortuna da altri richiami. Ma in quegli anni, tra il 1941 e il 1943, di richiami ce n'era uno solo, e veniva di lì. La sua scomparsa improvvisa dalla radio, il 20 febbraio di 50 anni fa, lasciò stupefatti gli ascoltatori italiani. Qualcosa si era smagliato, nella rete della propaganda, e forse non solo in quella, mentre gli alleati bombardavano Milano, le truppe italiane in Africa si avviavano alla disfatta e negli stessi vertici del fascismo era cominciata la guerra per bande: come era apparsa a tutti la defenestrazione dal governo di Ciano, Bottai, Pavolini, avvenuta quindici giorni prima. Mario Appelius non era, strettamente, un politico. Aretino, irrequieto, a 15 anni si era imbarcato come mozzo su un mercantile, ne era fuggito, aveva fatto tutti i mestieri tra l'Africa e l'Estremo Oriente; approdando, nel 1922, al giornalismo, e al Popolo d'Italia. Nel suo curriculum c'erano romanzi come «Il cimitero degli elefanti» e «Da mozzo a scrittore», corrispondenze di guerra dall'Etiopia e dalla Spagna, e tanti racconti di viaggio, raccolti in volumi dai titoli esotici, come «Al di là della Grande Muraglia» o «Le isole del Raggio Verde». Aveva visto (o fingeva) quasi tutti i Paesi del mondo. Nessuno poteva prendersi la briga di controllare quanto scriveva Appelius, da luoghi così lontani. E quella abitudine alla mancanza di controllo gli facilitò il compito durante la guerra, quando gli eventi, non sempre favorevoli dal fronte, avevano bisogno di essere aiutati dalla fantasia. Ne aveva dato una straordinaria prova nell'aprile del '40, durante lo sbarco tedesco in Norvegia, con la battaglia dello Skagerrak e del Kattegat, mai avvenuta, ma da lui raccontata con una serie di dispacci dell'agenzia Stefani e ripresa da tutti i giornali italiani. Un uomo così, anche se gli difettava la preparazione ideologica, e quel tanto di garbo richiesto anche ai più devoti trombettieri del regime, poteva essere l'ideale per sostenere dai microfoni dell'Eiar il difficile fronte interno, barcollante fin dall'inizio della guerra. Lo chiamò, nell'aprile del '41, Raoul Chiodetti, direttore della radio, con l'approvazione di Pavolini, ministro della Cultura popolare. Bisognava tonificare la rubrica «Commento ai fatti del giorno», che era stata tenuta a metà degli Anni 30 con pacatezza da Roberto Forges Davanzati e per la quale l'Eiar aveva ora scritturato alcune fra le firme più presentabili, come Aldo Valori e Giovanni Ansaldo. Ma quelli erano uomini di cultura, ragionatori, avevano il vizio di cercare riscontri nella realtà. Al fascismo serviva un tribuno, incurante delle sfumature, non disposto a lasciarsi intralciare dai fatti. Venne alla radio Appelius e li spiazzò tutti. Fu, per due anni, il grande comizio serale. «La radio aveva allora poco più di un milione di abbonati ci dice Franco Monteleone, lo storico dell'Eiar, che ha appena pubblicato da Marsilio la «Storia della radio e della televisione in Italia» -. Ma, per i Commenti di Appelius, possiamo calcolare un pubblico da 4 a 6 milioni di persone». Andavano in onda alle otto e venti di sera, dopo il giornale radio, ora di massimo ascolto per le famiglie, i gruppi nei bar, le sezioni di partito. «Era un uomo viscerale, di grande fiuto, abile comunicatore, capace a stabilire il rapporto con le masse - ci dice ancora Monteleone -. Non era mai esistito prima e non sarebbe mai esistito dopo un anchorman grande come lui. L'Italia democratica non lo ha avuto. I suoi commenti erano tracotanti, volgari. Ma galvanizzavano il pub- blico. Era un mito». Un mito un po' sinistro, che si fondava su argomenti faziosi, un linguaggio che sfiorava la turpitudine e spesso la oltrepassava, nell'invettiva contro il nemico. «Era lo strillone della compagnia», ci dice Antonio Piccone Stella, già allora al Giornale radio, che gli preferiva chiaramente Ansaldo. Alessandro Galante Garrone, autore del primo importante saggio sull'Eiar, «L'aedo senza fili», apparso sul «Ponte» di Calamandrei (1960), lo definisce «il più triviale e forsennato» fra tutti i personaggi che il fasci- smo portò in radio, parla di «stomachevole stile». Ma Alberto Monticone, nel suo grosso volume su «Fascismo al microfono» (ed. Studium, 1978) rileva come proprio quello stile aggressivo e violento, quelle esagerazioni e quelle volgarità «discusse e criticate negli stessi ambienti fascisti» fossero «ad essi gradite e ritenute funzionali». L'aedo, oltre che senza fili, era anche senza freni e, per quegli anni, andava benissimo. Tutti i peggiori luoghi comuni sulla perfida Albione, il popolo dei cinque pasti, la cricca pluto-giudaico-massonica venivano frullati nella retorica dell'aretino per infiammare ogni sera gli italiani che non avevano molto altro con cui scaldarsi. Scarseggiavano i viveri, suonavano ogni giorno le sirene dell'allarme aereo; il bollettino poteva vantare solo provvidenziali ritirate; ma la sera, mentre la famiglia era a tavola, quella voce annunciava le sue certezze sulla vittoria dell'Asse e concludeva con lo slogan divenuto più celebre fra tutti, riprodotto perfino sui distintivi che qualche superzelante portava all'occhiello: «Dio stramaledica gli inglesi!». Quel giornalismo becero, che alzava ogni sera il tiro della violenza verbale, era una delle poche armi che Mussolini era riuscito a far funzionare, nella sua sgangherata guerra. Ma neppure la popolarità conquistata valse a salvare Appelius quando a Palazzo Venezia arrivarono rapporti di polizia sempre più negativi sui suoi commenti. Secondo Monteleone, l'uomo fu vittima del suo stesso successo: «Si stava ponendo come un elemento parallelo al regime. La situazione della guerra diventava catastrofica; e Appelius, che aveva stabilito un'intesa diretta col pubblico, cominciava ad avere una funzione disfattista intollerabile per Mussolini. Lo licenziò lui, personalmente». I Commenti ai fatti del giorno gli sopravvissero meno di due mesi. Non c'era più Pavolini a sostenerli, avevano perso ogni senso, nel crollo ormai inevitabile. Appelius sparì, come tanti, ma prima di tutti. Dopo la guerra, fu processato per apologia di fascismo. Era ricoverato al Policlinico per un tumore al cervello, andò a interrogarlo Enrico Gatta, allora procuratore aggiunto a Roma. «Si difese sostenendo di non essere mai stato iscritto al partito», ci dice il figlio del magistrato, Bruno Gatta, giornalista e storico. In quell'occasione Appelius raccontò al giudice i suoi due ultimi incontri con Mussolini. «La prima volta disse al Duce di sentirsi a disagio, era molto incerto sulle sorti della guerra. Mussolini lo trattenne a lungo, gli parlò delle armi segrete in arrivo: stesse tranquillo, la guerra avrebbe preso un altro indirizzo». Appelius tornò a fare i suoi Commenti; ma non vide nessun indirizzo nuovo. «Dopo qualche settimana chiese un'altra udiènza. Mussolini questa volta 10 trattò con freddezza: "Voi non potete continuare a fare questo lavoro, perché avete perduto fiducia", gli disse». E probabilmente era vero, i rapporti di polizia avevano visto giusto. 11 giornalista che aveva stramaledetto gli inglesi non era il solo ad avere perso la fiducia, in quel febbraio 1943. Si avvicinava, per tutti, il 25 luglio. Appelius fu condannato, poi amnistiato; morì poco dopo, il 27 dicembre '46, a 54 anni. Non lo ricordava già più nessuno. Giorgio Calcagno Un diluvio di bugie «Dio stramaledica gli inglesi» fu una sua trovata LA STAMPA Mussolini e il ministro della Cultura Alessandro Pavolini. Sopra, Mario Appelius UitcapitfstcscescdesttGsgmdDi Mussolini e il ministro della Cultura Alessandro Pavolini. Sopra, Mario Appelius Un radioricevitore popolare italiano «Radiobalilla» del 1937. regime fascista lanciò campagne di propaganda perché ogni famiglia italiana ne avesse uno