I Di Pietro non pensano ai gay Einaudi compagno simpatizzante di M. A.

I Di Pietro non pensano ai gay; Einaudi, compagno simpatizzante AL GIORNALE I Di Pietro non pensano ai gay; Einaudi, compagno simpatizzante Non si diventa omosessuali per scelta Vorrei fare alcune osservazioni al lettore di Reggio Emilia che ha scritto la lettera comparsa su La Stampa dell'll-2-'93 a proposito della trasmissione della Sampò dedicata al tema dell'omosessualità. E' molto triste per me constatare quanta strada ci sia ancora da fare affinché l'omosessualità venga considerata una semplice differenza nell'orientamento sessuale. Se posso magari condividere la preoccupazione per il linguaggio e gli atteggiamenti aggressivi di Aldo Busi, non riesco proprio a capire come il lettore possa parlare di «istigazione all'omosessualità» e con quale presunzione definisca i rapporti affettivi tra persone dello stesso sesso «perlomeno torbidi»; queste sono frasi cariche di un odio e disprezzo che non hanno nulla che spartire con il desiderio di non turbare le coscienze dei più giovani. Le affermazioni di questo tipo nascondono una profonda ignoranza sui temi legati all'omosessualità, e la scusa di non turbare i giovani nasconde solo la propria paura ed incapacità ad affrontare una tematica che non si conosce e da cui ci si sente minacciati. L'omosessualità non è una scelta e non si diventa gay vedendo una trasmissione televisiva anche se presentasse (ma non è il caso in questione) l'essere gay come la cosa più bella del mondo. Gli omosessuali non rappresentano dei «casi umani» ed è proprio con atteggiamenti come quelli del lettore che poi si possono avere fenomeni di derisione di cui sembra ipocritamente preoccuparsi. Infine evitiamo di invocare i «vari Di Pietro» in funzione censoria perché se da un lato gli omosessuali sono sempre meno disposti a farsi umiliare in silenzio, i «Di Pietro» sono occupati in cose molto più scandalose che non una trasmissione tv che si occupa di omosessualità. Giovanni Battista Fiore Alpignano Un comunista senza tessera Nell'intervista che l'editore Giulio Einaudi ha concesso ad Alberto Papuzzi (La Stampa, 16 febbraio 1993, p. 14), alla domanda: «Ma lei, Einaudi, era comunista?», l'editore ha correttamente risposto: «E' una questione controversa. Nel senso che io non ho mai avuto la tessera. Però ero considerato un compagno». Avendo studiato un po' il linguaggio (o gergo) del partito comunista russo entrato nell'uso comune o quasi, posso dire che il ruolo di Einaudi era quello che i comunisti russi chiamano, o piuttosto chiamavano: socuvstvujuscij, cioè «simpatizzante» (cfr. Italiansko russkij sfavar, Mosca 1977, p. 804). Il termine gergale non figura naturalmente nel grande dizionario della lingua russa di Vladimir Dal, precedente la Rivoluzione d'ottobre. Il termine, inoltre, non va confuso con quello di «compagno di strada» (coniato, salvo errore, da Trotzkij), che si applicava agli scrittori, ai poeti, ecc., in breve aU'ìatelligencija in senso stretto; e neppure con quello di «indipendente», assai più tardo e proprio del linguaggio politico-parlamentare. Sergio Caprioglio, Torino Italia, cesto pieno di mele marce Se in un cesto di mele buone ve ne sono alcune bacate, basta toglierle ed ecco che questo torna ad essere appetibile, ma se il cesto è pieno di frutti marci forse si possono cercare e salvare le mele rimaste sane sane, ma il resto va buttato via. Questa è la nostra attuale situazione, se gli onesti sono le eccezioni, dobbiamo liberarci del cesto per poter ricominciare. Ma, purtroppo, il cesto sono le istituzioni di questa Repubblica e la sua eliminazione distruggerebbe ogni residua struttura di Stato. I pochi che possono essere salvati qua e là non sono suffi¬ cienti per fare da scheletro alla nuova Repubblica. Del resto non è neanche possibile tagliare il marcio a metà, lasceremmo il campo libero ad una sola delle parti corrotte, con pericoli ancora maggiori. Ed allora che fare? E' la quadratura del cerchio, impossibile ma indispensabile, richiede l'impegno di tutti, è in gioco il nostro futuro. Esiste una terza via tra la restaurazione ed il ricambio completo? I personaggi che dovrebbero assicurare il rinnovamento senza troppi traumi sono credibili per storia personale ed amicizie? Hanno la forza per sconfiggere gli apparati? Sono in grado di immaginare un mo¬ do nuovo di gestirla questa politica? A questi interrogativi devono pensare coloro che vorrebbero in buona fede imporre una sordina alle indagini a valanga. Roberto Alessi, Grosseto I soprusi della pianura sulla montagna Nello stesso articolo Giorgio Bouchard ricorda che Parigi e Ginevra sono sempre state le capitali culturali delle Valli Valdesi, e l'eurodeputato Rinaldo Bontempi dice che il Pinerolese deve essere autonomo da Torino {La Stampa 4 febbraio 1993). In questo argomento bisogna evitare confusione. Le nostre Valli intese come erano configurate nelle carte geografiche, miste di lingue e religione ma con una loro originalità e una tradizione internazionalista che può essere un utile gancio per l'Italia con l'Europa ed oltre, sono una cosa che va preservata e valorizzata. Pinerolo e dintorni, dove nel Medio Evo nacque il Principato di Piemonte (etimologicamente Piemonte «pianura»), il buon vicino che può essere un cuscinetto fra la montagna e la metropoli, sono un'altra cosa. Per la Val Pellico sono più forti e interessanti i legami con Torino e anche Milano e Roma. Debbono esserci autonomie politiche, amministrative culturali e della vita civile distinte quali che siano le forme che prenderanno. L'equivoco non serve a nessuno, la collaborazione a tutti. Si tenga presente che la popolazione del Pinerolese in senso stretto è maggiore di quella delle Valli. Da una omogeneizzazione verrebbe ancora una volta una sia pur involontaria sopraffazione della pianura sulla montagna sotto le apparenze della democrazia. E magari anche un deprecato passaggio di Tir sotto il Colle della Croce. Sono problemi locali ma anche esemplari. Gustavo Malan, Torre Pellice A Paolo VI non piaceva la cravatta di Gesù Nell'articolo comparso su «La Stampa» del 10 febbraio, con il titolo «Cattolici col vizio del botto», e firmato da Mauro Anselmo, c'è scrìtto: «Agli inizi degli Anni Settanta Famiglia Cristiana lancia il nuovo supplemento Jesus: Gesù in giacca e cravatta alla moda, più look da playboy che da falegname. Gesù con gli occhiali alla John Lennon. La gerarchia ecclesiastica non gradisce, Paolo VI alza la voce, il caso finisce su tutti i giornali». Ora, premesso che Jesus non è un supplemento, ma una vera rivista, sull'ultimo numero da me ricevuto trovo scritto: «Anno XV». Se è vero ciò che è dichiarato sulla copertina - e penso non vi sia alcun motivo per dubitarne - vuol dire che Paolo VI avrà mandato qualche messaggio dall'Aldilà, perché all'epoca della pubblicazione del primo numero di Jesus (gennaio 1979) era già morto, essendo deceduto nell'agosto del 1978. Mi auguro che di giornalisti che hanno le caratteristiche descritte da Valentino Bompiani in un suo aforisma ve ne siano pochi. Giancarlo Isnardi Moncalieri (Torino) Il lettore ignora che Jesus, prima di diventare un mensile autonomo, nel '79, uscì, a metà degli Anni Settanta, come fascicolo allegato a Famiglia mese che era il mensile di Famiglia Cristiana. Quindi Paolo VI ebbe tutto il tempo di esprimere le sue riserve sulla copertina di Gesù in giacca e cravatta alla moda. La polemica, del resto, fu ripresa da tutti i quotidiani. [m. a.]