« Che ladri i comunisti

« DOCUMENTI IL LETTERATO E LO ZAR ROSSO « Che ladri i comunisti Le lettere inedite di GorkijaLenin MOSCA DAL NOSTRO INVIATO «Come sono d'accordo che i comunisti bisogna frustarli! Ah che ladri che sono, se voi sapeste! E quali luridi borghesi ne verranno fuori tra due o tre anni!». A. Peshkov, alias Maksim Gorkij, scriveva queste righe furibonde a Vladimir Ilic Lenin nel 1919. Lettere di fuoco, imploranti protezione non per sé, ma per scienziati, medici, studiosi che la rivoluzione stava travolgendo senza tregua, senza pietà, senza speranza, in un vortice di insensata vendetta. Lettere che sono rimaste sepolte per 74 anni nell'archivio dell'Istituto per il MarxismoLeninismo presso il Comitato Centrale del pcus dopo essere state prelevate - appunto per garantirne la totale inaccessibilità - dal Fondo della segreteria di Lenin. Gorkij, in quegli anni, era tutt'altro che tenero con i bolscevichi, come lo era stato nel 1917 e nei primi mesi del 1918. Allora, quando ancora era possibile, aveva pubblicato sul giornale «Novaia Zhizn» (La Vita Nuova) cose di uguale ferocia. «I nuovi capi sono altrettanto brutali dei precedenti, solo che esteriormente sono ancora più volgari. Urlano e danno calci nelle gambe negli odierni posti di polizia, come urlavano i loro predecessori. E arraffano bustarelle, proprio come i precedenti funzionariucci arraffavano, e spingono a branchi la gente in galera». I concetti sono gli stessi del Gorkij dei «Pensieri intempestivi». Poi lo scrittore cambiò idea, divenne più malleabile, più corrivo al regime. Fu «catturato» e visse negli agi che il suo silenzio gli consentiva. Ma nel 1919-21 era ancora di altro avviso. Vedeva lucidamente cosa stava accadendo, ne prevedeva la catastrofiche conseguenze. E ne scriveva a Lenin, lui che poteva. La lettera che pubblichiamo - inedita - insieme ad altre, è stata trovata dal quotidiano Trud negli archivi che si stanno aprendo gradualmente. Ma non le risposte - se ci sono, e probabilmente ci furono - di Lenin. Sarebbe oggi di estremo interesse conoscere cosa Lenin rispondeva allo scrittore allo¬ ra ribelle, come giustificava ciò che stava accadendo. Gorkij doveva conoscere la risposta, doveva averla già ascoltata in più d'una conversazione privata, forse letta in qualche lettera precedente, vergata dalla mano del capo. Lo scrive, ne anticipa gli argomenti: «che volete farci, è la lotta politica», oppure «chi non è con noi è contro di noi», oppure ancora «chi è neutrale in questa lotta è solo pericoloso». Quindi va eliminato, va tolto di mezzo a tutti i costi. I «grandi compiti» della storia non possono certo guardare ai piccoli problemi dell'esistenza individuale. Questo era lo spirito dell'epoca. Poteva apparire, ai più, come necessario, inesorabile. In Russia più che altrove, come la storia ha appunto dimostrato. Il poeta Lermontov scrisse una volta una massima tragica e vera sull'incredibile pieghevolezza del popolo russo, sulla sua infinita disponibilità a «giustificare il male», ad «accettarlo» quando si presentasse la sua «inevitabilità». Ma Gorkij, la sua vicenda personale, è il paradigma del l'intelligencija russa. Mai ceto intellettuale fu, come quello russo, al tempo stesso più vicino e più lontano dal proprio popolo. Più vicino perché ne seppe descrivere qualità e difetti come poche letterature hanno saputo fare. Più vicino perché l'intelligencija russa è sempre stata travolta dal Potere insieme al popolo. Ma più lontano perché non fu mai capace di «essere» popolo, non ne seppe mai dividere le sorti, se non perché forzata dagli eventi, castigata per la sua ignavia o per la sua presunzione. Basta andare a rileggere le tremende parole che Oleg Volkov - testimone a carico - scrive della visita di Gorkij al Lager di Solovki. Era il 1934. «Guardava solo dalla parte che gli indicavano, conversava con gli agenti della Ceka, travestiti con le divise nuove dei prigionieri, entrava negli alloggi delle sentinelle da cui avevano appena portato via i fucili e le guardie. E si esaltava!». Giulietta Chiesa

Luoghi citati: Mosca, Russia