Cronache del Medioevo da Erevan sotto assedio

8 Un etto di pane a testa, gli abitanti hanno tagliato gli alberi di viali e parchi per scaldarsi Cronache del Medioevo da Erevan sotto assedio NELLA CITTA' FANTASMA EREVAN DAL NOSTRO INVIATO Città fantasma. Spettri grigi infagottati che vagano nella neve alta, che nessuno spala, alla ricerca di cibo, di legna. Al calare delle ombre gli alti palazzi color ocra piombano in un buio inesorabile. Le occhiaie nere delle finestre lasciano intravedere bagliori fiochi di candela. Dai vetri, bucati alla meglio, tubi di stufe improvvisate sputano incerti sbuffi di fumo. Erevan, la capitale, è assediata come tutta l'Armenia. Per trovare un'analogia di pari drammaticità bisogna tornare alla seconda guerra mondiale, ai 900 giorni di Leningrado assediata dai nazisti. Oppure andare molto più indietro nel tempo, alle descrizioni delle città medievali che morivano nella morsa di eserciti di cavalieri e arcieri. Ci illudiamo tutti di vivere nel XX Secolo, mentre parti intere di questo mondo vivono in altri secoli, con altri costumi e valori, con altre armi e altre crudeltà, cui l'Europa s'illudeva di non avere più a che fare. Un milione e 200 mila persone, civili, donne, vecchi, bambini, sono trascinati nella guerra che non contrappone più soltanto eserciti e bande. L'Azerbaigian e l'Armenia si disputano l'enclave del Nagorno-Karabakh con una ferocia che fa sembrare ridicoli i 3000 morti finora caduti sui campi di battaglia. Chi mina i gasdotti che portano energia a Erevan, attraverso la Georgia anch'essa in guerra, sa che moriranno di freddo e stenti uomini che non hanno scelto di combattere. E a Erevan muoiono partorienti, muoiono bambini negli orfanotrofi e negli asili, muoiono anziani nei ricoveri. La Croce Rossa Americana ha calcolato che la popolazione ha perduto in media - nei quattro mesi scorsi di blocco - circa 20 chili di peso prò capite. Il governo distribuisce cedole di un razionamento ferreo, che abbraccia tutto: pane, burro, carne, alimenti per l'infanzia, tabacco. Ma quei pezzi di carta restano per molti solo carta. Cento grammi di pane al giorno (a Leningrado riuscivano a darne 150 anche nel momento più terribile) sono un sogno che si realizza per una minoranza. Gli altri si arrangiano come possono. E i 180 mila profughi giunti in questi quattro anni dall'Azerbajgian, dal NagornoKarabakh, non ricevono nemmeno quel poco che agli altri è riservato. Visito la prigione di Ashtarak, trasformata in alloggio, ormai da quattro anni, per 600 famiglie di armeni fuggiti ai pogrom di Sumgait e Baku. E scopro con stupore che, oltre all'abisso di miseria e di fame in cui sopravvivono, c'è l'odio e la discriminazione dei connazionali. Come i polli manzoniani appesi a testa in giù nelle mani di Renzo, ci si becca per contendersi un tozzo di pane, la via verso una salvezza problematica. «Ci chiamano turchi - esclama una vecchia dentro un cappotto divenutole troppo grande - perché parliamo la lingua azera. Ma io parlo anche armeno, e russo. E' forse una colpa?». E dal crocchio di donne appollaiato attorno all'unica fontana della prigione, tutte cariche di secchielli, si alza un coro di nostalgia per la perduta Unione Sovietica, «dove almeno la vita non era in pericolo», «dove si poteva mangiare», «dove i nostri figli andavano a scuola». Tutto è fermo in questa desolazione bianca di neve e ghiaccio. Da novembre le scuole sono chiuse. Impossibile starci, impossibile andarci. Gli autobus sono una rarità. Nella fabbrica elettromeccanica migliaia di motori destinati all'Argentina sono ammucchiati nei reparti deserti. Il governo paga 2000 rubli a testa al mese. E Rafik, operaio, due figli e una moglie, deve vivere con quello, quando un chilo di burro vero ne costa 1500. Non c'è nemmeno l'acqua. Nelle vie centrali, ogni tanto, s'innalzano cattedrali di ghiaccio. Tubi saltati che nessuno può saldare, aggiustare. Le acque di scolo infettano tutte le falde, filtrano nelle canalizzazioni dell'acqua potabile. Almeno il 15% della popolazione soffre d'infezioni intestinali. Il ministro dell'Ecologia, Carina Danilian, è angosciata: «La fine dell'inverno è lontana. Ma quando verrà la primavera i pericoli d'infezioni e epidemie diverranno altissimi e sarà molto peg¬ gio di ora». E il disastro ecologico è già immenso. Nel solo perimetro cittadino oltre un milione di alberi sono stati falciati da una ricerca disperata di tepore. L'elettricità arriva, quando arriva, per una, due ore al giorno. Un'unica centrale idroelettrica è in funzione, parziale: quella del lago Sevan, già 20 metri sotto il suo livello minimo. E fuggire da questa trappola mortale è quasi impossibile. La gente assalta i rari aerei che ancora arrivano all'aeroporto Svarnots, ma i treni sono fermi sui binari, la stazione è deserta. Le poche merci che arrivano, attraverso la Georgia, sono scortate da convogli militari. Il resto, le lattine di Coca Cola, le Marlboro, le birre bulgare che si vendono nei chioschetti «capitalistici» - tutto a prezzi fantastici arrivano attraverso le mille vie clandestine del mercato nero. La Turchia è frontiera ostile, vigilata dalle guardie russe. A parole Ankara è neutrale, nei fatti appoggia i fratelli musulmani di Baku. Una via d'uscita non si vede, forse non c'è. Chiedo al ministro della Difesa, Manuikian, qual è la loro strategia. Capisco che ne hanno una sola: difendere il Nagorno-Karabakh, conquistato militarmente. E' il Libano. Ma asfissiato. Forse hanno fatto male i loro calcoli. Pensavano che bastasse l'indipendenza da Mosca e tutto il resto sarebbe andato a posto. Ma non è stato così. Nell'unico orfanotrofio funzionante a Erevan, Elena Gasparian, la direttrice, riesce eroicamente a mantenere 13 gradi di temperatura nelle stanzette dove sono radunati 50 bambini. Uno è azero («ma l'abbiamo battezzato la scorsa settimana»). Mi risponde ostinatamente in armeno fino a che non si accorge che non sono russo. Per lei bisogna continuare la lotta, costi quel che costi. Ma l'accademico Sandrò Magakian, che incontro la notte della partenza, sa solo mormorare sconsolato una ricetta disperata, per la vita e la morte: «Dobbiamo raccogliere tutte le nostre energie e evitare di trasformarci in bestie». Il viaggio di ritorno è una storia a sé. L'aereo che ci ha portato a Erevan da Mosca con un gruppo di giornalisti americani era partito nella notte per Tbilisi per fare rifornimento dai militari. L'hanno bloccato per 24 ore. Solo l'intervento dell'ambasciata Usa riesce a strappare un po' di kerosene. Tornerà a Erevan con 24 ore di ritardo. Nuovo intervento americano sul governo armeno, per avere carburante fino a Soci, Russia. All'aeroporto di Adler corriamo tutti ai telefoni. Un cartello informa: le comunicazioni sono interrotte con l'Armenia, la Georgia, l'Azerbajgian, l'Abkhazia, l'Adzharia, la Cecnia, l'Ossetia. E' guerra dappertutto, da queste parti. Giuliette Chiesa Gli azeri bloccano i gasdotti Negli ospedali e negli asili della capitale armena si muore di freddo e stenti AZERBAIGIAN ( NAGORN0 V * ,KARABACH IRAN H Nelle case e negli asili di Erevan ci si scalda con la legna degli alberi dei viali

Persone citate: Adler, Citta' Fantasma, Giuliette Chiesa, Sevan